“Faccio fatica sovrapporre le immagini di rovina e di abbandono a quelle di bellezza struggente del paesaggio e della natura. C’è tutta una tradizione di sguardi, del resto, che lega indissolubilmente, in diversi contesti, la bellezza e la rovina,e la Calabria è stata definita come ” (Vito Teti – “Il senso dei luoghi”)
Un mio amico, di recente, mi ha raccontato che per anni con i suoi compagni di avventure e viaggi si sono detti “dobbiamo andare a Roghudi”, come se fosse l’isola che non c’è, una città mitologica, un luogo fuori dal tempo e dallo spazio.
Anche lui fu contagiato da un libro. “Il senso dei luoghi”, di Vito Teti. Un libro straordinario sui paesi abbandonati o praticamente moribondi della Calabria. Un libro doloroso e vigoroso, struggente e profetico, teso tra perdita e speranza. Un libro sull’assenza, sulla perdita, sulla narrazione dell’anima, sul filo stretto che diventa nodo scorsoio, o corda spezzata, oppure corda di nuovo tesa verso un mondo che ancora non ha nome, ma che ‘nel suo nome’, ancora ignoto eppure antichissimo, le radici prenderanno forma, in un tradimento che può seppellire i tradimenti, può rinnegare se stesso e così cominciare una nuova storia.
Il libro di Teti contagiò anche me e Roghudi si impresse nella mia mente, come quei non –luoghi da ritrovare, come da ritrovare sono tutti i nostri luoghi, tutta la nostra storia. Il libro è pieno di paesi, borghi, strade, ruderi di una bellezza violenta, dove la violenza è satura di abbandono. Ma Roghudi è il primo che avrei voluto venire.
Roghudi da sempre definito “il paese più infelice del mondo”, per la sua storia costellata di catastrofi.
Quando mi incamminai verso Roghudi, stavo facendo qualcosa che, pochi giorni prima assolutamente non avevo preventivato. Ero da un due giorni a Gallicianò, antichissimo paese del reggino, incastonato nel cuore dell’area grecanica. Quel territorio dove un tempo il grecanico -l’antica lingua greca contaminata dalla secolare presenza in Calabria- veniva parlato da quasi tutta la popolazione. Mentre adesso, solo pochi, soprattutto anziani, mantengono ancora viva quella lingua. A Gallicianò venni a sapere che Roghudi era proprio lì vicino. Era anch’esso un altro paese dell’area grecanica, come Bova e Pentedattilo. E c’era la possibilità di giungervi, con 4 ore circa di cammino a piedi, scendendo nella immensa fiumara dell’Amendolara, in quel momento a secca essendo i primi di settembre, e poi camminare e camminare fino a quando Roghudi sarebbe spuntato.
C’era anche un’altra possibilità, andare con un ‘altra strada, in macchina, fino a un punto dove, scendendo qualche centinaio di metri, si sarebbe giunti a Roghudi. Ma io scartai subito questa ipotesi. La fiumara in secca consentiva ancora di andare a piedi, e non c’è paragone tra giungere in un luogo a piedi e arrivarci con la macchina. A piedi fatichi molto di più, ma il luogo lo meriti davvero, ti si avvicina passo passo, anche quando tu ancora non lo vedi. Lo senti gemere nel suo silenzio, anche quando non ascolti nulla, oltre i tuoi passi e le parole di chi ti sta accanto e qualche rumore di animale tra la vegetazione che si inerpica sugli strapiombi che circondano, come mausolei scolpiti la fiumara. Camminando un luogo lo “conquisti”. L’arrivo si intaglia in te con un sapore particolare, perché raggiungendolo con solo te stesso lo hai onorato.
In realtà non ho conquistato Roghudi e non l’ho meritato, perché troppo lontano ero e sono da tutto quello che è stato il suo retaggio, il retaggio sofferto e nobile dell’area grecanica. Troppo poco ancora so di questi luoghi per “conquistare” alcunché. Ma sicuramente camminare verso Roghudi ml ha permesso di accogliere, ecco, la sua dimensione con un sapore diverso, una umiltà .
Roghudi, cammino verso di te, sapendo che sei l’appuntamento mancato, che ritorna. Che sei tu ma non sei soltanto tu. Sei tutta la Calabria strappata, il volto dei fuggitivi, le aspre alture che venivano dal silenzio e al silenzio sono ritornate. Una fatica millenaria. Una nostalgia perenne. Una memoria tradita, eppure splendida, perché tradita. Il tradimento fa nascere i germi del riscatto. Eppure Roghudi sono solo ruderi, case abbandonate, pietre e muri e rovine di strade abbarbicate le une sulle altre. Che c’è di bello? E perché questa assenza ci attira sempre? Roghudi se dicessi che sei solo un simbolo ti annegherei, annegherei il tuo concreto essere stato, il tuo essere qui e ora, nell’orgia della metafora, nelle scorciatoie perenni dell’analogia. Ma se non ti sapessi anche simbolo di altro, ti castrerei, perché non si è mai solamente se stessi, non si è mai solo il confine definito e misurabile, la storia messa in un recinto; si è sempre, anche, portatori di un segno che ci travalica e si invera in noi, nostro malgrado. Roghudi so bene che non ci saranno tesori nascosti, nulla da prendere, perché tutto è già stato preso da quando, negli anni ’70 il paese venne definitivamente abbandonato. E forse è meglio così. Andare in un luogo senza più gente a prendere, è fare ancora il predone che vuole rubare qualcosa per se. E invece non prendere nulla è forse l’occasione di dare.
Con Nino, abitante di Gallicianò e conoscitore perfetto di quei luoghi, scendiamo dall’altezzadi Gallicianò verso l’ampia fiumara. La fiumara, una volta che ci arrivi, è surreale, tanto è ampia, e ti pare di essere in qualche vecchio western o in un day after dove del mondo sono rimaste solo pietre. E di pietre, infinite pietre essa è disseminata. E ogni tuo passo calpesta pietre e all’inizio fa male ai piedi, finché a un certo punto ci fai il callo. Ti abitui a mettere la pianta in un certo modo, per ridurre il fastidio.
Mentre cammino mi accompagnano nella mente le parole di Vito Teti. Roghudi, vittima di una guerra..
“Qui una guerra vera e propria non c’è mai stata, anche se i paesi dell’area grecanica, come altri centri della Calabria, conservano memorie e testi di tradizione orale delle invasioni turchesche, ma la fine del mondo è avvenuta ugualmente. Qui la guerra è stata lenta,s subdola, sotterranea e ha avuto come protagonisti miseria e abbandono, terremoti e dimenticanze, alluvioni e silenzi… E’ stata lunga la guerra e quando si è verificata l’ultima battaglia, l’ultimo scontro, l’ultima invasione (le alluvioni del 1972 e del 1973, ma ancora prima quella del 1951), gli abitanti quasi non se ne sono accorti, non hanno più combattuto, e come ubbidendo a un richiamo misterioso, sono fuggiti insieme e all’improvviso.”
Una lunga storia di devastazioni, un interminabile martirio..
“Quella di Roghoudi , situato su uno tra le montagne inospitali, è negli ultimi secoli, a leggere le fonti, i documenti e le interpretazioni che ci offre, una storia che, se non fossi sempre attento ai mutamenti e ai piccoli cambiamenti, alla necessità di cogliere stabilità e trasformazioni, sarei tentato di leggere come una sorta di non storia, una storia bloccata, condizionata, segnata dalla natura e dall’angustia degli spazi, sempre uguale a se stessa dall’inizio alla fine. Ristrettezza degli spazi, frane, fiumi, roditori, alluvioni, terremoti, epidemie, malattie hanno segnato la vita del paese e la mentalità dei suoi abitanti e alla fine ne hanno preparato la fuga. “
Una tale sequenza di catastrofi… alluvioni, frane, malattie,… che sembra inventata, troppo inesorabile, troppo implacabile per non essere essa stessa metafora, e invece è reale. Nulla, il tempo risparmiò a questo paese.
E intanto cammino, su uno scenario ipnotico, dove tutto è esteso e identico. La fiumara non ha confini. La fiumara è il confine. Il caldo è asfissiante.. e penso alla fune e ai figli attaccati.. Teti, riporta quando di Roghudi, scrisse nel 1885 Mario Mandalari:
“Roghudi è gittato sopra un monte, è circondato da mille abissi e da mille caverne; le madri di famiglia sono obbligate di attaccare i loro figliuoli a una fune per non vederli precipitare in quelle eterne voragini, nido d’uccelli notturni e di animali ladroni….”
Quando lessi quelle parole mi chiesi innanzitutto, come “concretamente” le madri attaccassero i loro figlia alla fune per non farli cadere. E poi mi chiesi che assurdo paese doveva essere un paese così dannatamente a strapiombo che i bambini correvano costantemente il rischio di precipitare e sfracellarsi, tanto da costringere le madri a legarli ad una fune. E più avanti nel suo libro, il richiamo di queste corde ritornava, nella citazione, di quanto, nel marzo del 1948, Tommaso Besozzi, scriveva per l’Espresso.
“A Roghudi (…) si vedevano fino a poco tempo fa tanti grossi chiodi conficcati nei muri, e le donne vi assicuravano le cordicelle che avevano legato attorno alle caviglie dei bambini più piccoli, perché non precipitassero nel burrone”.
Il destino di Roghudi fu quello di altri paesi dell’area grecanica come Africo e Casalnuovo. Le alluvioni degli anni ’50 portano all’abbandono di quei paesi. Nel corso dei decenni altri paesi, come Gallicianò e Bova perdono gran parte dei loro abitanti, ma qualcuno resistette e qualcuno resiste ancora, e adesso progetta una rinascita di quei luoghi.
Il sole ti sfinisce in questo cammino per Roghudi, io e il mio amico facciamo diverse pause, apparentemente per commentare questa o quella cosa, o per mangiare un panino, ma in realtà perché tutte quelle rocce, ti sfiancano le gambe, e il caldo sembra toglierti energia.
A seguito delle alluvioni dell’ottobre del 1971 e del dicembre 1972- gennaio 1973, i tecnici dichiararono Roghudi pericolante e venne disposta l’evacuazione. Tuttavia un gruppo di persone non volevano andarsene da Roghudi. Nel “Senso dei luoghi” si richiama la ricerca etnografica di Isabella Florio; ricerca che riporta la testimonianza di Ugo Sergi. Sergi rammenta cosa gli disse, un giorno, un abitante di Roghudi vecchio in merito all’abbandono del paese.
“I paesani non lo volevano abbandonare dopo l’alluvione, ma è stato lui ed altri due o tre che hanno pensato di andare via, perché erano sicuri di non avere un futuro in quel paese. Lui era anche un commerciante… tutti i generi di prima necessità a Roghudi vecchio li portava lui settimanalmente. Quindi ha nel sangue il commercio ed oggi è proprietario di un grande supermercato. Mi raccontava che lui aveva capito Roghudi sarebbe morto, che non aveva strade, non aveva collegamenti, era troppo interno, che la vita all’esterno era completamente differente, e lui ed altri due o tre avevano capito questa cosa. All’indomani dell’alluvione tutti gli abitanti volevano invece rimanere arroccati nel paese. Allora lui e gli altri amici iniziarono a scappare, ad andare via, portando via tutti i mobili e le altre cose, quindi a sfollare. Piano piano tutti lo guardavano passare dal paese e pensavano questo è pazzo che se ne vuole andare così dall’oggi al domani, scappa dalla propria casa e sfolla. Poi qualcun altro si è convinto e piano piano tutto il paese nel giro di dieci, quindici giorni, ora non vorrei dire una fesseria sul periodo, però dice che in un brevissimo tempo dietro di lui e di questi altri amici, un paese intero è sfollato in un brevissimo tempo”.
Le alluvioni non furono la morte inevitabile per Roghudi. Ci fu la scelta. E ci fu, questo dice con chiarezza Tetti, una volontà di abbandono, che aveva radici antiche. Una volontà che, e sembra paradossale dirlo, si accompagnava ad un’atavica volontà di resistere in questo paese abbarbicato su una rube, circondato da fiumare, sottoposto ad ogni possibile evento idrogeologico.
L’abbandono in realtà era già in corso da tempo. Molti erano emigrati per cercare un destino migliore. Molti si spostavano verso le marine, in quel dissanguamento dell’entroterra verso le coste che caratterizzerà tutta la Calabria.
Ma una parte della popolazione non mollava Roghudi, non lo abbandonava. Ci si teneva stretta a questo paese abbarbicato e inospitale. Ma la loro resistenza quanto più era accanita, tanto più era permeabile al “contagio” che qualcuno avesse aperto. Dentro ognuna di quelle persone si combatteva una guerra, tra restare e partire, abbandonando quel luogo di sacrifici continui, spesso spazzati via da un’alluvione o da una frana. E, se la storia è vera (ma anche se non fosse esattamente vera, sarebbe, in qualche modo, verisimile) bastò vedere quel negoziante di generi alimentari e qualche suo amico andarsene per spingere questo ultimo nucleo di “resistenti” ad ammainare bandiera bianca e ad andarsene.
Ancora camminiamo, ma non vedo nessun segno di Roghudi. Vedo sempre questa fiumara sconfinata, i suoi sassi, qualche debole fiumiciattolo, i promontori intorno a noi. E capisco che se non fossi andato a piedi non avrei visto questa arcana bellezza, questa insopportabile, quasi, ripetizione, questo essere perduti in un orizzonte che sciacciandoti ti solleva.
Poteva Roghudi non morire? Teti è combattuto.. a volte crede che si poteva salvare, altre volte vede in esso il compiersi di un destino inevitabile.
“Anche col senno di poi, comunque, sembra davvero difficile pensare che le cose sarebbero potute andare diversamente: forse davvero nessuno e niente, nessun analista e nessun Santo, avrebbero potuto scongiurare l’abbandono di Roghudi. Tutto sembrerebbe iscritto nei suoi geni, nella configurazione del territorio, nella su storia di isolamento e di catastrofi. E forse era scritto nella sua identità più profonda e più peculiare…. Nel 1981 i grecanici dei diversi paesi sono soltanto 5000, quelli sparsi in vari posti quasi 25000. E oggi, come ho ricordato, il grecanico è comprensibile soltanto a poche persone, adoperato da pochi anziani, in maniera discontinua e occasionale. In una dimensione esclusivamente famigliare.”
La morte di Roghudi come simbolo dell’estinzione del grecanico, l’antica lingua greca di Calabria, che adesso resiste solo in poche persone, soprattutto anziani e qualche cultore della cultura e dello spirito del luogo. Nei giorni in cui sono stato a Gallicianò, uno degli ultimi baluardi dei greci di Calabria, scoprii che tra i suoi trenta e poco più abitanti, solo una parte ancora parlava in grecanico. Un mondo si estingue quando perde la sua “antica lingua”, la lingua dei padri, la lingua che si è impressa nelle sue rocce, nelle sue ossa, nel suo sangue. Questo, anche questo dice Teti.
“Roghudi sembra dover compiere il destino di custodirla (la lingua grecanica) fino all’ultimo, fino alla sua scomparsa. Quella roccia, quella rupe è anche simbolo di resistenza e di tenacia, proprio di chi deve custodire qualcosa. Assediato dall’esterno e dall’interno, Roghoudi perde lentamente l’antica lingua, si apre alla nuova, più adeguata ai tempi, ma è come se aprendosi creasse le ragioni della propria fine.”
Improvvisamente, un’isola ci appare in lontananza. Un’isola su un mare desertificato. Una montagna, una rocca, che si innalza come protuberanza di quella immensa fiumara, e su di essa Roghudi.
Difficile dire la sensazione che si prova a vedere prorompere questo luogo. Capisci, ammirato, che Rughudi è insieme tutto e insieme niente. Questo luogo era nato per morire, tanto è ‘impossibile’ il suo esserci. Eppure ha resistito per secoli.
Le case appaiono in lontananza e noi ci avviciniamo. Perché adesso, naturalmente, dobbiamo entrare in Roghudi. Non c’è molto vento quel giorno, ma penso al vento del giorno in cui vi giunse per la prima volta Teti..
“Il vento si alza sempre più forte e fa battere con insistenza le porte e le finestre ancora integre. Dalla strada, guardando nelle stanze dilaniate, si scorge la luce che arriva dalle finestre. Si avverte una sorta di presenza estranea, quasi ci si aspetta una apparizione improvvisa, l’arrivo di un abitante del passato.”
Dinanzi a tutto quell’abbandono, che è anche spaesamento e fascinazione, arsura di un sentimento, Teti prova l’umiltà che richiede quel rispetto che solo può permettersi di accostare ai luoghi che non lo sono più, che lo saranno per sempre..
“Questi luoghi sacri, non desacralizzati, hanno bisogno di visitatori con un sentimento, di persone che non vanno alla ricerca di fantasmi.”
Ecco che prendiamo la piccola malandata strada che dalla fiumara ci attorciglia intorno a Roghudi. Ecco che ci inoltriamo passo passo in questo abitato per secoli bombardato dall’acqua, dalla terra e dal tempo. Adesso che le case mi si pongono di fronte capisco fino in fondo il senso della parola “accartocciato”. Ma accartocciato non è la parola giusta. Immaginate questo paese completamente pressato su se stesso. Immaginate una densità nello spazio come praticamente mai si vede in un paese. Immaginate una rupe sfruttata in ogni suo angolo, pur di recuperare ogni centimetro. Immaginate una vita dove tutte le case sono ravvicinate, e le strade strettissime. Dove il contatto umano era inevitabilmente massiccio, dove, probabilmente, camminando non potevi non toccarti con le persone. Immaginate un mondo dove bastava poco per sbattere negli altri, dove, in pratica, finivi col vederli sempre, col sentirli sempre. Un mondo tutto circondato da strapiombi, dove, bastava anche qui poco, per finire nel precipizio, una carcassa sfracellata sul fondo che la fiumara dell’Amendolara avrebbe trascinato via. Immaginate questo costante salire, immaginate, questo poco spazio e queste case a spiovente aggrovigliate le une alle altre, immaginate questa densità umana, potenzialmente generatrice di continue tensioni, immaginate questo costante essere lambiti dal precipizio, tanto che le madri legavano i figli a una fune per non farli cadere. E a tutto questo aggiungete frane, alluvioni, epidemie. Come poteva Roghudi resistere? Eppure.. come ha potuto esserci per secoli?
Il resoconto di Testi è del 2003, 11 anni fa, e la mia Roghudi, quella che io vedo è ancora più distrutta di quella che lui vide, qualche altro tetto è crollato, qualche altra porta è venuta meno, qualche altro pavimento ha ceduto. Ma le sue parole possono ancora in gran parte andare bene anche per questa. Roghudi:
“.. Nessuna immagine e nessuna storia possono restituire il senso di spaesamento, d’incanto, di inquietudine che provocano la vista e il rumore del paese che si adagia sopra un enorme dente di roccia al centro dell’Amendolea. Il paese ora da’ l’impressione di volersi buttare nelle fiumare, ora mostra la voglia di tenersi aggrappato alla roccia per non essere trascinato nel vuoto. Nessuna foto o storia può lontanamente restituire questa luce bianca e accecante che arriva negli occhi e impedisce di guardare, il rumore assordante del fiume e del vento, lo sbattere degli alberi e dei fili della luce, l’odore inconfondibile, penetrante di escrementi ovini. Guardi dall’alto le prime case sventrate, distrutte dall’alluvione del 1951, i tetti aperti e le poche antenne, appena fissate prima dell’abbandono, i fianchi della roccia e il letto del fiume. Roghoudi e le sue ombre, i riflessi delle case e delle montagne mi sembrano un dinosauro con le ali, impedito nel suo desiderio di spicccare il volo. (…). Guardo anch’io con un sentimento di paura le rupi ferite in più punti, le case sventrate che si tengono a stento alla montagna quasi per non cadere nel fiume. Avverto un lieve capogiro. Il sole, il vento, il rumore del fiume, l’emozione mi stanno giocando un brutto scherzo. Mi addentro lungo la strada principale del paese… Molte abitazioni sono ancora integre, ben tenute, chiuse, le porte e le finestre sigillate con travi di legno, come se le persone dovessero tornare da un momento all’altro e volessero ritrovare tutto a posto. Ma sono più numerose le case aperte e sventrate, dalle porte e dalle finestre divelte e con oggetti lasciati qui e là: qualche bullone e oggetto metallico, resti di materassi e di reti, brandelli di indumenti, qualche scarpa spaiata, come se anche le scarpe fossero andate ognuna per conto proprio, quasi a raccontare una più generale separazione. Le case sono quasi tutte in pietra. Le più grandi hanno un basso a pian terreno non comunicante con i piani superiori. Sono ancora accostate una all’altra, una sopra all’altra, e hanno differenti dimensioni. Sono disposte su tracciati viari irregolari con fronti continui che, dicono gli esperti, possono superare i trenta metri. Gli spazi sono tutti occupati. Il paese era stretto e pieno. Non c’era vuoto e non c’era incompiutezza. … L’impressione, tuttavia, è quella di una fuga improvvisa, di un abbandono scomposto e disordinato come di fronte a un nemico crudele e minaccioso. Fuori, nei vicoli tortuosi, lungo le piccole discese, sulle gradinate, prevalgono, e sembra una descrizione del passato in cui il paese viveva in mezzo alla sporcizia, gli escrementi di animali, capre e cani. L’odore è inconfondibile. Un silenzio inquietante è accentuato se possibile dall’abbaiare dei cani, dal rumore del vento.”
Man mano che ci inerpichiamo, anche io vengo preso da questa curiosità insaziabile, che forse non è neanche curiosità, ma “costrizione”.. di guardare in ogni casa, come a riacciuffare schegge di un mondo ormai antico, come a volere guardare ogni segno, da una scarpa spaiata a un antico forno di mattoni e legna a un muro rotto sul cielo. E ci sono scenari che ricordano le parole con le quali Immanuel Kant parlava del sublime.
“Sublime è il senso di sgomento che l’uomo prova di fronte alla grandezza della natura sia nell’aspetto pacifico, sia ancor più, nel momento della sua terribile rappresentazione, quando ognuno di noi sente la sua piccolezza, la sua estrema fragilità, la sua finitezza, ma, al tempo stesso, proprio perché cosciente di questo, intuisce l’infinito e si rende conto che l’anima possiede una facoltà superiore alla misura dei sensi” (Immanuel Kant – Critica del giudizio)
Uno in particolare. Entro in una casa aperta, è una delle case che stanno su uno strapiombo. E’ il rettangolo che una volta ospitava una finestra che ti incanta. Cammino passo passo –anche perché hai sempre timore che i pavimenti possano crollare- verso quella finestra. La finestra da’ proprio sullo strapiombo. Davanti a te si staglia a centinaia di metri di distanza un’altra scogliera selvaggia, sotto scorgi lo sprofondare dello strapiombo fino alla grande fiumara. Per capire quel senso di stare appesi sull’abisso, immagina che se dove c’è questa finestra ci fosse una porta, tu la aprissi e facessi un passo, precipiteresti in fondo senza incontrare ostacoli. E io pensavo a cosa significasse vivere in quella casa. Cosa significasse vivere in una casa in cui, la notte ti alzavi, e da quella finestra vedevi altezze, lontananze, abisso e una sterminata fiumara, con (a partire dall’autunno) il suo costante rumore. Cosa significasse, ogni mattina, alzarsi, e guardare dalla propria finestra tutto questo.
C’è un passaggio del “Senso dei luoghi” dove anche Teti entra in una casa con la finestra che da’ sullo strapiombo. Non è esattamente la stessa casa. Non è esattamente lo stesso strapiombo e non è esattamente lo stesso panorama. Ma rende la stessa “materia” delle emozioni che provo io guardando dalla finestra della casa in cui entrai.
“… scorgo una casa aperta, il pavimento sembra solido, vado verso una finestra che sbatte sotto i colpi del vento, mi affaccio e ho davanti agli occhi uno spettacolo indimenticabile: le case a strapiombo sulla fiumara, legate alla roccia, l’Amendolea che scorre veloce e fa sentire la sua voce, di fronte una strada che va verso i paesi dell’altro versante. Qui e là in lontananza case diroccate, mi sporgo a sinistra e vedo un lampione con i fili cadenti che si abbassa verso un muro dove sono ancora visibili spazi di qualche competizione elettorale. Chissà cosa avranno promesso agli ultimi abitanti del luogo gli ultimi comizianti…….”
La stessa “materia” dicevo.. ma lo spettacolo che ho descritto prima è molto più intenso. Perché non vedi neanche case, ma solo altezze, strapiombo, fiumara. Sono decisamente case “impossibili” ora, case che nessun piano regolatore sensato ammetterebbe. Case che neanche nessun abusivista sano di mente costruirebbe. Ma del resto nessun penserebbe che si possa costruire su un promontorio come quello su cui è nato Roghudi. E provi una sorta di ammirazione per coloro che vollero comunque edificare dove tutto quanto complottava contro ogni concetto abitativo. E pensi a case come questa che sembrano partorite da un sogno malato, una sorta di sfida, un corteggiare la caduta, un tendere estremo, un dire “voglio costruire proprio fino al limite estremo in cui è possibile farlo”.
Continuo la mia camminata, salendo sempre più su, e continuo ad entrare in tutte le case dove è possibile farlo, che non abbiano porte sbarrate o dove l’entrare non è una trappola per la vita o una garanzia di sprofondamento. E ti stupisce il ritrovare ancora qualcosa in molte di esse. Sono passati più di 40 anni da quando il paese venne abbandonato, eppure trovi ancora qualcosa. Sono passati 11 anni da quando Teti scrisse il suo libro, eppure trovi ancora qualcosa. Ci sono ancora le scarpe spaiate di cui parla Teti. C’è ancora qualche pantalone e camicia sbiaditissimi appesi a un impolveratissimo e logoro filo. C’è ancora qualche vecchia giacca. E, vorrei prenderla quella gioca e mettermela qualche istante, pensando che 40 anni fa è appartenuta a qualcuno, pensando che giacche di quel tipo probabilmente non si fanno più; ma la lascio dove sta e dove probabilmente starà per i prossimi 40 anni. In altre case trovo macchine da caffè, cucine, residui di cibo o di bevande. Ci sono birre con ancora il contenuto e chiedo scusa se non me la sono sentita di berlo. Così come c’erano conserve di cui solo con un certo sforzo della mente riesci a immaginarti il contenuto. Sicuramente non si trovano facilmente conserve “stagionate” come queste.
E continuiamo fino ad arrivare alla parte superiore del Paese, l’unico punto in cui senti un poco di spazio attorno a te. C’è una sorta di piazzetta, di luogo dove la gente poteva sedersi, con di fronte a se lo spettacolo vertiginoso di uno strapiombo. C’è una fontana lì vicino e, sopra di noi, qualche filare di uva posto in stecche orizzontali. Il mio amico si arrampica come una salamandra fino a sopra e stacca dei grappoli d’uva. Ce ne sono di due tipi, uno dagli acini piccoli, uno dagli acini grossi. Li laviamo alla fontana che ancora funziona e lì sopra, al vertice di Roghudi, mangiamo questa uva ormai selvatica, provando un’intima soddisfazione, solitari spettatori della caduta di un mondo, della caduta del mondo. Uniche presenze, quel giorno, di un luogo che un tempo aveva brulicato di vita, di corpi, di storie.
Voglio riportare, adesso, una poesia popolare, in grecanico, dedicata a Roghudi. La riporto prima nell’originale in grecanico, poi tradotta in italiano.
Oscìa
Immo condà tin dhalassi
tin cunno stin cardìa
pos o vorea stin oscia
tin cunno sta fiddha ton cladia
pos dhorò pessi sta pedia
tin cunno san vreghi
pos o igghio san treghi
tin cunno st’astia
imera ce vradia
tin dhorò sta di casu
po cladia sta melicucchi
ti cunno lo sento
san vreghi stin campia
ti cunno lo sento
ce mu dighi olo oscìa.
Montagna
Sono vicino al mare:
lo sento nel cuore
come il vento della montagna
lo sento nelle foglie dei rami
come vedo giocare i bambini
lo sento quando piove
come il sole quando corre
lo sento negli orecchi
giorno e notte
lucchi lo vedo nei tuoi occhi
come rami di bagolaro
quando piove nei campi
Avevo detto che non avrei preso niente da Roghudi. Che non avrei sottratto nulla, anche se qualcosa da prendere ci fosse stata. Ma dentro di me sapevo che non avrei resistito di fronte a un libro. Non ho trovato nessun libro. Però ho trovato un quaderno. Un quaderno di un bambino delle elementari. Un quaderno dell’anno 1961. Un quaderno che stava lì 53 anni. Forse l’unica cosa scritta a mano che ancora si trova a Roghudi. Apro una pagina a caso per vedere cosa c’è scritto..
Una rosa rossa spunta sul rosaio. Un insetto si posa sui suoi petali. Un asino sta in attesa. Si riposa. Porta una soma assai pesante. Le stelle stanno lassù!..
Non ho potuto fare ameno di prenderlo. Porterò con me queste pagine scritte da un bambino; da chi, forse, adesso è un over sessantenne che vive in chissà quale parte della Calabria, dell’Italia o del mondo. Lo porterò con me come a volerlo salvare.
E’ un po’ difficile lasciare un posto come Roghudi. E’ un po’ difficile anche augurargli qualcosa. Perché non puoi augurargli di ripopolarsi tout court. Qui la differenza la fa il “tipo” e lo “stile” di un eventuale ripopolamento. Io in genere sostengo i progetti che “recuperano” paesi abbandonati o morenti, per farne altro. Ma Roghudi non può diventare “qualsiasi altro”. Non può diventare un paese albergo, non può diventare un colossale residence per turisti in cerca di emozioni esotiche, o una comune di tedeschi, francesi o svizzeri amanti dell’Italia meridionale. Non può diventare un luogo per giochi di ruolo a cielo aperto.
Qualunque ripopolamento, qualunque progetto deve comprendere la “vocazione” di Roghudi, la sua “lunghezza d’onda”, l’anima che vive in queste strade e in queste vecchie mura. Certo, andrebbe comunque ristrutturato tutto, per fare in modo che tra un po’ di anni gran parte dei muri, dei tetti e dei soffitti non crollino, lasciando solo un mucchio di macerie. Andrebbe ristrutturato tutto, in modo da “mantenere” il paese… per lasciarlo “aperto” a nuova gente che ne riscoprisse l’anima e creasse qualcosa coerente con questa anima. E magari, si proponesse di recuperare il grecanico, l’antica lingua dei greci di Calabria, la lingua che resiste ancora solo tra pochi anziani. Finché non verrà “nuova” gente capace di innestarsi nell’anima di Roghudi, è meglio che Roghudi resti vuoto, luogo del non luogo, simulacro di una cantilena di rovine, memoria delle rocce, città impossibile, tensione irriducibile tra la fine di un mondo e il desiderio di un ‘altro.
La foto che apre il posto e le foto che adesso seguono le ho fatte nel mio viaggio a Roghudi.