Maeva l’ho conosciuta per caso. Un giorno su facebook qualcosa mi colpì di lei, non ricordo adesso esattamente cosa. Una frase che aveva scritto, uno scritto che aveva condiviso, forse la sua stessa immagine collegata al suo lavoro “naturopata”, come se l’una cosa illuminasse l’altra. Eravamo prossimi alla primavera del 2015 e insieme con Luigi Quintavalle e con il patrocinio e il supporto del Senatore Bartolomeo Pepe, stavo organizzando un convegno nell’aula conferenze del Senato incentrato sull’alimentazione come percorso di cura e guarigione. Non l’alimentazione come solitamente viene trattata, ovvero come approccio preventivo e utile ausilio per mantenersi in buone condizioni ed evitare danni. Certo il senso preventivo c’è sempre ogni volta che si parla di alimentazione. Ma lo scopo principale di quel convegno era porre l’attenzione sul cibo come terapia; terapia anche per situazioni estremamente gravi e problematiche, come tumori, sclerosi multipla e altre malattie autoimmuni, e tanto altro. Quando parliamo di terapia non intendiamo “unica” terapia. Ci sono casi in cui la cura alimentare da sola ha avuto risultati risolutivi. E casi in cui la cura alimentare si accompagna comunque ad altro, come piante medicinali, trattamenti di chelazione, ecc. Quando parliamo di “terapia alimentare” ci riferiamo a quel “mondo” in cui sono stati studiati e applicati i centrifugati di frutta e verdura e, in senso lato, diete senza carni, latticini, farine bianche. Un mondo a sua volta sfaccettato al suo interno, che va dal celebre metodo Gerson a tanti altri approcci.
In merito a quel convegno, che si sarebbe svolto il 6 luglio, insieme a Luigi Quintavalle stavamo individuando i relatori. Mentre a tutti gli altri relatori giungemmo tramite percorsi canonici –consigli autorevoli, ricerche approfondite, articoli letti, ecc.- a Maeva giungemmo, meglio dire giunsi, nel modo in cui ho scritto prima. Qualcosa mi colpisce di questa donna, le scrivo, e già dal primo messaggio comprendo che è una grande esperta di alimentazione oncologica e da quello che dice e da “come” lo dice, afferro che sicuramente la sua presenza avrebbe avuto un grande senso per il convegno. Ci confrontiamo parecchie volte, anche al telefono, e la mia intuizione iniziale diviene una certezza.
Maeva, naturopata ad indirizzo psicosomatico-–pur essendo giovanissima. ha la competenza e l’esperienza per parlare di argomenti concernenti la cura, non solo dal punto di vista alimentare, ma anche dal punto di vista dei supporti fitoterapici e di altro genere e, in modo particolarmente efficace, dal punto di vista del rapporto mente corpo nella malattia, tutto quel mondo che sommariamente viene definito come psicosomatica, quel mondo dove la malattia non emerge a caso, ma è collegata a tutto un vissuto emozionale, spesso radicato nel tempo, e implementatosi nel corso degli anni.
Maeva ha le competenze e l’esperienza dicevo. Ma è lei stessa in gioco, è la sua stessa vita che fu messa in gioco e che, nella carne e nell’anima degli altri … continuerà ad esserlo per sempre. Ed è questo che la rende speciale. E’ passare attraverso “la selva oscura” che ti porta a conoscere gli abissi del dolore, ma anche i vertici del cuore e dell’anima. Maeva, bambina da sempre di salute cagionevole, scoprì di essere affetta da leucemia mieloide acuta –una delle peggiori forme di leucemia- a 13 anni. Lì iniziò un calvario fatto di ospedali, massacranti cure chemioterapiche, invasive cure radioterapiche, devastanti effetti collaterali. Sì perché il mondo delle cure ufficiali, a molti ben noto, è un mondo di bombardamento del sistema immunitario, di debilitazione del corpo, di sfiancamento della mente e dell’umore. Maeva, orgogliosissima dei suoi lunghi capelli, li vide cadere come avviene a quasi tutti coloro che ricevono la chemioterapia. Così come il suo delicato corpo subì tanti degli altri effetti che la chemioterapia “regala”, compresi danni alla tiroide e alle ovaie, e dolori muscolari. Con molti di questi “problemi” Maeva ha dovuto convivere per anni; e, con alcuni di essi, ci convive ancora oggi.
Maeva è una freccia lanciata verso la vita, nonostante tutte le prove della morte e del dolore. E’ una freccia che si è riempita di vita tanto più cresceva il dolore. Invece di farsi sommergere dal dolore, si è resa traboccante di vita e amore.
Maeva è un figlio nato –suo figlio- a costo di “scalare le montagne” visto i danni alle ovaie che erano un bastone tra le ruote in questo sogno. Maeva è un figlio, sempre lo stesso, Leonardo, “ripreso” dal punto di vista curativo grazie alle sue cure considerate da molti medici “ufficiali” –ma non per fortuna da tanti medici veramente aperti e onesti-, scempiaggini. Maeva è un suocero, suo suocero, fatto “risuscitare” tre volte da diagnosi senza speranza, prima della definitiva ricaduta.
Maeva è una professionista della cura che ha incorporato in sé il vissuto sofferto del malato oncologico. Lo ha incorporato per sempre. Così il malato è sempre visto come una parte di sé, con una empatia ed una capacità di immedesimazione totale. Di fronte a chi ha bisogno per lei viene meno tutto, pagamento compreso. E, come dice lei, se una volta si fa pagare, tariffe che altri hanno considerato ridicole tanto sono basse, quattro volte non chiede nulla. State certi che quella persona se ha un problema e non può pagare non verrà mai rimandata a mani vuote da Maeva. Come non ci sarà nessuno che potrà dire di avere pagato qualcosa per le ore e ore che lei sta a telefono con chi ha bisogno.
Qui non si dice che chi fa diversamente necessariamente sbaglia. Ma lei fa così. E a me francamente piace il suo modo di essere e di agire. Così come mi piace quell’onestà che sfiora la purezza assoluta, anche perché è nella purezza assoluta che sono le sue radici. Una onestà non esposta e venduta sulla piazza, ma intrinseca, inevitabile, come è inevitabile per l’uccello volare.
Leggetela questa intervista. Ve lo raccomando. Persone come Maeva è un dovere conoscerle.
Prima dell’intervista vera e propria ho voluto inserire una citazione di Maeva. Citazione che trovo emblematica.
A 13 anni è iniziato il mio calvario.
Io prima di essere naturopata sono un’ex malata oncologica e questo titolo me lo portero’ dentro impresso per tutta la vita. Quando provi il dolore nella maniera più forte, non te lo cancelli più di dosso. Non a livello fisico, ma a livello morale comunque ti resta, e vedi non solo le cose materiali, ma riesci anche a capire quello che provano gli altri e ad osservare oltre … Paradossalmente io ti dico che se dovessi tornare indietro e scegliere se percorrere o meno quel tratto di strada io alla fine lo rifarei senza dubbio alcuno. A me ha segnato tanto la vita più in positivo che in negativo.
Il cancro per me è stata un’occasione di rinascita … so che sono parole forti, ad alcuno incomprensibili, ma io non lo vorrei cancellare dalla mia vita! perchè se oggi sono quella che sono è anche per quel tratto di strada percorso, che mi ha aiutato ad amare la vita ancora di più di quanto già l’amassi!
-Tu ti chiami Maeva, quanti anni hai?
Sono del 1982 e ho 33 anni.
-Dove sei nata e dove abiti?
Sono nata a Gavardo, provincia di Brescia. E abito a Sabbio Chiese.
-Come è stata la tua infanzia, i tuoi anni giovanili?
Io sono la prima di sei fratelli, cinque sorelle e un fratello. Sono sempre stata circondata da tanta vita; La mia è stata un’ infanzia bellissima, nonostante un rapporto piuttosto conflittuale con mia madre. Ho giocato tantissimo, soprattutto a casa di mia nonna.
Si giocava all’aria aperta, nei prati, in montagna, a contatto con la natura e con tanti altri bambini.
Ero una bambina vitale e spericolata nonostante la mia salute delicata. Ho avuto undici interventi chirurgici, ad oggi, sparsi qua e là per il corpo e un morbo di Arnold Chiari. A 8 anni ho avuto il primo intervento per una stenosi del giunto al rene destro. A 11 anni mi trovarono una scoliosi destro convessa così l’ortopedico decise di mettermi un busto fisso che dovevo tenere giorno e notte, e che odiavo con tutta me stessa. Nel bel mezzo dell’adolescenza è stato una vera tortura fisica e morale che non ha di certo aiutato la mia autostima.
-Quanti anni lo hai tenuto?
L’ho tenuto tre anni e me ne sono liberata “grazie” alla leucemia. Perché una volta ammalata non potevo più tenerlo. Considera che mi hanno fatto questo busto al contrario aggravando così di molto la curva dorsale, tanto che due anni fa dovetti operarmi facendo la stabilizzazione della colonna vertebrale; Non ho mai potuto dimostrare lo sbaglio che hanno fatto, ma mi ha causato molti disagi. Il busto, oltre tutto, appoggiava proprio nella colonna vertebrale, sulla vertebra lombare dove secondo me il midollo è impazzito.
-A un certo punto è emersa la leucemia.
Avevo 13 anni. Era il 1995.
Tutto iniziò con l’avvertire fortissimi dolori e un senso di stanchezza, di brividi, di freddo. Un giorno mi toccai una ghiandola al collo, ingrossata e molto dolorosa e qualche giorno dopo il collo che non c’era più da tanto che era gonfio. Mi si erano gonfiati tutti i linfonodi del collo, delle ascelle, dell’inguine. Il medico curante mi fece fare subito le analisi, e da lì la diagnosi di leucemia. Venni ricoverata subito nel reparto oncologico pediatrico e già il giorno dopo iniziai la chemioterapia.
-Quale fu la diagnosi specifica?
Leucemia mieloide acuta. Una delle forme peggiori. Poche possibilità di uscirne … All’epoca avevo i capelli lunghissimi fino a sotto il sedere. Il mio trauma più grande fu quello di perdere i capelli. Mi ricordo la sorella di mia zia parrucchiera che veniva a rasarmi. Immaginati una ragazzina di 13 anni, immagina la sua sensibilità, immagina il suo attaccamento a cose come i capelli. Delle volte penso che la mia vita sia iniziata lì. Come se avessi perso qualcosa della mia vita precedente. Raramente mi ricordo del prima o parlo del prima. Di solito quando parlo di me, parto da lì. Non so se sia stata più un’esperienza negativa o la mia vera nascita. Mi fecero due cicli di chemio. Non riuscii a finire il secondo perché il mio corpo non lo sopportava.
-Cosa intendi concretamente per ciclo?
Dieci giorni.
-Ogni ciclo dieci giorni continui di chemioterapia?
Esatto … I medici dicevano che era una delle chemioterapie più forti, e da qui tutti gli effetti collaterali del caso. Persi i capelli, ebbi danni alle mucose con dissenteria e vomito costanti. Il secondo ciclo non riuscii a terminarlo perché, come ti dicevo, ero talmente debilitata che ero più morta che viva. Ebbi anche tre collassi.
-Quando parli di collassi intendi che sei letteralmente svenuta?
Sì … ho perso i sensi più di una volta. Nel frattempo avevo fatto anche la radioterapia, ma di quella non ricordo assolutamente niente. La mia fortuna è stata fare il trapianto di midollo con la quarta delle mie sorelle: Maria, la mia salvatrice e colei che mi ha permesso di nascere una seconda volta! C’era un grande fiocco rosa sulla porta della mia camera il giorno del trapianto! Prima che si scoprisse la compatibilità con mia sorella avevo solo il 20% di possibilità di sopravvivenza. Con il trapianto la percentuale si era alzata fino al 60, 70%. Un’altra fortuna è stata che io non ebbi né rigetto né troppa fatica ad uscirne.
Come ti dicevo, della radioterapia non ricordo nulla. L’ unica cosa è la sensazione tremenda che sentivo quando durante la radioterapia mi facevano sedere sopra ad una sella, in una stanza dove non entrava nessuno. E io che facevo una fatica tremenda a sorreggere il mio corpo che sentivo pesantissimo. Una sensazione che mi sono portata appresso per mesi. Nonostante pesassi solo circa 35 kg, mi sentivo un corpo pesantissimo; e sentivo tutta la difficoltà di sorreggerlo, di farlo muovere, ecc. Anche quando tornai a casa, il dovere fare le semplici cose, il dovermi lavare, vestire, il dovere prendere in mano la forchetta per portarla alla bocca era un’ impresa. Ricordo ad esempio la difficoltà appunto di portare il cibo o l’ acqua in bocca perché dovevo muovere questo braccio pesantissimo. E’ una cosa che se non l’hai vissuta è difficile da spiegare. Anche nel fare le scale mi ricordo la fatica di dovere alzare la gamba che pesava come un macigno.
-Come se avessi del cemento sulle gambe?
Esatto … Anche se sono passati venti anni, certe cose non te le scordi più. La sensazione resta viva dentro di te. Mi pare di sentire ancora la pesantezza alle gambe. Ripresi la mia vita pian piano. Ripresi la scuola, facendo l’esame di terza media da privatista e studiando a casa. I miei professori furono straordinari, mi hanno voluto tanto bene! venivano a farmi lezione a casa per aiutarmi. Io penso che quando uno affronta una malattia debba essere protagonista in primis, ma debba anche avere la fortuna di trovarsi accanto tante persone che gli vogliano bene. Ed io questa fortuna l’ ho avuta, da parte di molti e della mia famiglia, nonni e zii compresi. Comunque subito dopo la radioterapia feci, come ti dissi, il trapianto con mia sorella Maria, trapianto che sostanzialmente mi salvò la vita. Il trapianto andò a buon fine anche grazie ad un farmaco sperimentale che mi consentì di andare a casa in pochissimo tempo, a circa 21 giorni dal trapianto. Ma per tanto tempo dovetti fare ancora avanti e indietro dall’ospedale. Ho sofferto anni per gli effetti collaterali della chemio e della radio: I polmoni erano rimasti molto danneggiati; ho avuto polmoniti frequenti che facevano sempre fatica ad andare via; danni alle ovaie; dolori muscolari, alle ossa e alle ginocchia. E alcune cose me le porto tutt’oggi, pure a distanza di venti anni. Convivo con una tiroide bruciata; dovrei prendere la pastiglia ma non la prendo. E ci sono queste ovaie danneggiate, tanto che per avere mio figlio ho dovuto smuovere le montagne. Ho le cartilagini disintegrate e dolori muscolari che non se ne vanno; e nonostante la mia professione, i danni li ho limitati parzialmente. Se dovessi decidere adesso, con la conoscenza che ho oggi, sceglierei sicuramente un altro percorso, sperando di non farmi prendere dalla paura, perché la chemio è un veleno che devasta.
-Mi rendo conto di come caterve di persone continuino ciclicamente a finire dentro la chemio e come sia un tema che ne varrebbe centomila altri ma non esce mai, non esce mai a livello di grande dibattito di massa… penso anche che quando uno passa attraverso una esperienza del genere, ognuna delle singole problematiche che rilevi … alle cartilagini, alle ovaie, ecc … ti senti un po’ avvilita … ti senti un po’ avvilita per ognuna di queste problematiche che ti ritrovi ad affrontare. Come se sentissi che una parte del tuo corpo fosse compromessa … io credo che anche questo hai vissuto … il senso di smarrimento nel pensare che ogni parte del corpo, fosse finita in una sorta di reazione a catena, dove un problema ne ha generato un altro …
Difficilmente mi avvilisco, mi sento comunque fortunata ad esserne uscita vincente, mi dispiace soltanto di non aver avuto all’ epoca le alternative naturali e non invasive che oggi conosco.
Non fu semplice, ma piano piano ripresi la mia vita, ripresi ad uscire, ecc. Sono stata tantissimo tempo con la mascherina per paura di un qualsiasi contagio. Le difese immunitarie furono bassissime per molto tempo. Una delle mie tristezze in quel periodo fu il disagio di vedere il mio corpo così cambiato, gonfio per il cortisone, pallido, calvo; e lo fu anche vedere la commiserazione negli occhi della gente quando mi guardava. Non mi piaceva essere guardata con quegli occhi, era umiliante. Nessuno più mi considerava semplicemente Maeva, ma piuttosto la ragazzina ammalata. Ma io ero sempre lì, potevo e volevo provare ancora emozioni diverse dal dolore, e avevo ancora la stessa personalità della peperina vitale che ero prima, seppure il fisico era devastato! Mi mancava il giocare con i miei amici e fratelli, l’ uscire a correre con gli altri ragazzini, l’ andare a scuola o all’oratorio per paura di un contagio. Mi mancava il poter vivere come facevo prima ed era un po’ come essere in una gabbia. Questa sensazione mi è rimasta, come la paura di non avere abbastanza tempo per fare le cose. Se io sto facendo qualcosa, la mia mente sta già pensando a cosa dovrò fare quando questa cosa l’ avrò finita … diciamo che sono abbastanza impulsiva, un vulcano in continua eruzione, e non sempre questa cosa gioca a mio favore. Ci fu un periodo dopo il trapianto, un periodo terribile, con un dolore fortissimo alle ginocchia. Pensavo di avere dei topi che mi divorassero l’interno. Credo di non avere mai più provato dei dolori così. Per un anno siamo stati tutti in un’apprensione tremenda. Pensavamo “ci risiamo … ricadiamo … la malattia si ripresenta …”. E tutto questo è destabilizzante, un po’ come perdere la terra sotto i piedi. Ricordo l’ultima visita come una cosa meravigliosa, erano trascorsi cinque anni da che facevo avanti e indietro dall’ospedale. Calcola che nel primo periodo il controllo era tre volte la settimana e che casa mia dall’ospedale dista quasi un’ora. Per un anno fu mio padre ad accompagnarmi e poi cominciai ad andare da sola, prendendo il pullman. Avevo quasi 18 anni, quando i controlli non furono più necessari. Abitavo già da sola, fuggitiva. Arrivare ai cinque anni è stata proprio una liberazione. Io sapevo che fino a 5 anni c’era la possibilità di ricaduta. E se entro i cinque anni non succedeva niente, ero praticamente considerata guarita per quella patologia. Ricordo la dottoressa che visitandomi mi disse che sarebbe stata quella l’ultima visita. Non ci sarebbero più stati altri controlli ed io ero finalmente libera dal titolo di malata oncologica! Che bella sensazione!
-Tu ormai sei sicuramente lontana da ogni tipo di rischio, sia per gli anni passati, sia per il tipo di approccio alla salute, sia per il cammino interiore, sia per lo stile di vita. Detto ciò, il concetto dei “cinque anni …fuori pericolo …” dovrebbe essere approfondito. Loro non dicono tutto, esistono anche statistiche a 8, 9, dieci anni, dodici che non fanno circolare.
Sì, sì … è verissimo … c’è molto di non detto in tutto il mondo oncologico …
-Complessivamente tu come vivesti quella esperienza?
La mia più grande sofferenza, oltre al dolore fisico, era di non potere essere a casa coi miei fratelli. Noi avevamo una sorta di odio amore, tanto litigavamo quanto ci coccolavamo! In realtà siamo sempre stati molto uniti e lo siamo tutt’ora. Io per i miei fratelli darei la vita, nel senso che ci vogliamo un bene immenso.
Nel reparto oncologico in cui ero ricoverata c’erano tanti bambini; Sono stata l’unica a sopravvivere. Tutti gli altri non ce l’hanno fatta. In quel reparto avevo un carissimo amico. Lui aveva 17 anni, io ne avevo 13. Gli avevano già fatto due trapianti, ed era in lista per il terzo. Lo hanno riempito di chemio. Ha fatto una vita di sofferenza lì dentro. Lui era la mia guida … il mio amico del cuore, il mio primo amore, il mio esempio. Con lui ero a mio agio, avevamo lo stesso viso gonfio, la stessa testa pelata, la stessa voglia di vivere e lo stesso sorriso sulle labbra. Gli volevo molto bene! Le nostre anime vibravano della stessa energia. Quando arrivava in ospedale per fare le visite, sgattaiolava nella mia stanza di nascosto perché essendo una stanza asettica nessuno poteva entrare. Eppure lui in qualche modo ci riusciva. Quello che io stavo passando, lui lo stava passando da molto tempo, perché, quando l’ho conosciuto, la sua battaglia durava già da cinque anni. Marcello, così si chiamava, non ce l’ha fece. Per me fu una grande perdita e una grandissima ferita. Se penso al giorno in cui me lo dissero, provo ancora la stessa morsa al cuore. Fu un momento tremendo. Più volte pensai di dover guarire anche per lui che amava così tanto la vita. Era un poeta! Ho ancora il suo libro di poesie conservato gelosamente tra le mie cose preziose. Nonostante tutto il dolore ho anche dei bei ricordi. Il personale di quel reparto era meraviglioso. Sono stati i miei angeli! In particolare c’era un infermiera, la mia Monica, che quando entrava nella mia stanza era una ventata di aria buona e luce. Il mio medico preferito invece era una persona splendida. Da quel dottore, Alberto Arrighini, ho imparato che il dare del lei alle persone non è una forma di rispetto e non è nemmeno tanto necessario, l’ educazione è altra cosa. Da lui ho imparato a non farmi dare del lei, mai, nemmeno dalle persone che seguo e che mi chiamano dottoressa, perché lui mi diceva che non si dà del lei nemmeno a Dio durante la preghiera e che quindi nessun uomo ha il diritto di farselo dare. Era uno di quei medici con la M maiuscola, perchè oltre alla professionalità spiccava umanamente e come sensibilità nell’approccio al paziente; Non a caso era un padre di famiglia e non trattava i pazienti come numeri o come protocolli.
-E’ vero … non ci avevo mai pensato … le persone non è che pregano col lei quando fanno le preghiere … dicevi che avevi ripreso a studiare grazie anche a questi insegnanti che ti sono stati vicino, che venivano a casa tua …
Sì … persone splendide. Diedi l’esame da privatista e lo passai discretamente non perdendo l’ anno. Nel 96 iniziai la scuola superiore, che tra l’altro non mi s’addiceva per niente. All’inizio volevo fare le magistrali, perché ho sempre amato i bambini e volevo insegnare. Però la scuola era molto lontana da casa, non me la sentivo perché ancora debilitata e quindi mi iscrissi a ragioneria che era la scuola più vicina a casa. Una scuola però che con me non c’entrava niente. Ho fatto quattro anni per poi ritirarmi. Il diploma lo presi anni dopo, facendo la scuola serale di dirigente di comunità. Comunque a 14, 15, 16 anni io stavo la maggior parte del tempo a casa a studiare malvolentieri cose che non mi piacevano e con il rapporto con mia madre che peggiorava sempre di più. A 17 anni lasciai la scuola e mi misi a lavorare. Me ne andai anche fuori di casa. A casa mia non potevo uscire, mi sentivo bloccata, ostacolata, impedita in tutte le cose. Non mi sentivo libera.
-Parliamo dei tuoi studi naturopatici …
Ho studiato naturopatia ad indirizzo psicosomatico principalmente per me stessa. Fin dall’infanzia ebbi un rapporto conflittuale con mia madre, e ad un certo punto mi resi conto come le mie varie esperienze ospedaliere fossero strettamente collegate al bisogno di attirare la sua attenzione e il suo affetto. Sentivo la necessità di reimpostare un rapporto sano con lei, (cosa che poi fortunatamente è accaduta), e di trovare autostima e fiducia in me stessa. Quindi la scuola nasce principalmente per ritrovare il mio benessere psicofisico personale …
-Anche io considero il discorso psicosomatico una colonna … poi sorge il problema di come graduare, rapportare l’elemento psicosomatico con gli altri elementi.
Il dott. Roberto Gava fa un esempio che secondo me è semplicissimo da capire. Lui dice che quando un bambino nasce ha il suo “bicchiere” di salute. Questo bicchiere è influenzato anche dalla genetica, da come è stata la gravidanza della madre, da come si è comportata; è influenzato da tutta una serie cose. Il bicchiere alla nascita non è uguale per tutti. Per qualcuno può essere un bicchiere pieno, per altri può essere mezzo pieno, per altri ancora vuoto. E’ logico che se un bicchiere è pieno basta poco per farlo strabordare. Se invece un bicchiere è vuoto, magari uno può avere lungo il tragitto delle sofferenze, delle abitudini sbagliate, una vita scombinata, e magari non succede niente, perché ci vuole tanto tempo affinché il bicchiere si riempia.
-E’ un’ottima metafora …
Nella mia umile esperienza lavorativa tutte le persone che ho seguito hanno avuto delle grandi delusioni, o frustrazioni, sofferenze, traumi, perdite. C’è sempre qualcosa dietro una patologia.
-Tu mi hai detto che hai un rapporto poco … ”professionale” … con il denaro, con l’essere pagata …
Partiamo dal presupposto che io ho scelto il mio lavoro. Per me, ciò che faccio, prima che essere una professione, è una vera e propria missione. Essendo io una ex malata oncologica ho scelto di essere naturopata in supporto del malato oncologico nella speranza di alleviare quella stessa sofferenza che io ho provato. E quando riesco a vedere che la persona raggiunge un benessere sto bene anch’io. E’ un grazie alla vita che mi ha dato tanto.
Non ho nulla in contrario al compenso onesto di un terapeuta. Sono contrariatissima piuttosto ai pagamenti eccessivi; ci vuole etica e vicinanza alla gente. Non si può far pagare una visita medica di pochi minuti o una consulenza specialistica 150€. Per quanto mi riguarda, i soldi, se una volta li prendo, quattro volte non li prendo. Ma per il momento mi va bene così. Col malato oncologico solitamente studio prima tutta la documentazione e le informazioni sulla persona cercando di avere una visione di essa a 360° ( per intenderci non mi interessa sapere solo com’è il cancro, ma piuttosto come la persona stà sotto tutti i punti di vista, com’è’ il suo carattere, come mangia, come dome, come sono i suoi rapporti con gli altri, se ha avuto dei traumi ecc ecc) e poi la consulenza dura dall’una alle due ore. Le telefonate poi non le prendo in considerazione, nel senso che non mi faccio pagare per esse, anche se passo molto “tempo libero” al telefono. Ho conosciuto anche persone disoccupate o che potevano pagarmi il mese dopo. Le ho trattate nello stesso modo in cui ho trattato chi mi ha voluto pagare più di quanto solitamente chiedo. La salute è un diritto di tutti. Mi spaventa inoltre la moda del fai da te, quindi se posso cercare di limitarla, anche tenendo una tariffa abbordabile, ne sono felice perché il fai da te puo’ essere pericoloso e rischioso! Ogni rimedio infatti può avere delle controindicazioni o delle interazioni. Non siamo tutti uguali e non esiste un rimedio o un protocollo universale valevole per tutti indistintamente. Ci sono molte cose da sapere e da non prendere alla leggera. Io stessa in situazioni particolarmente delicate mi appoggio a medici. Credo anche che la collaborazione tra più specialisti sia il miglior approccio al paziente. Sono arrabbiatissima con chi spaccia un rimedio come vangelo assoluto e con chi si approfitta del malato oncologico non badando alla salute di questo ma allo squallido rendimento economico. Purtroppo in internet se ne trovano molti di questi personaggi, alcuni dei quali ho già segnalato a chi di dovere.
-Ho un senso di stima verso di te. E’ difficile trovare qualcuno così disinteressato …
Una delle mie fortune è che nella vita mi sono ritrovata ad essere in diversi panni e situazioni. Ancora prima di essere naturopata io sono stata malata oncologica; ma ho avuto nella vita anche un periodo in cui arrivare a fine mese era una faticaccia. Una signora oggi mi ha scritto umilmente chiedendomi un consiglio, e scusandosi perché disoccupata lei, disoccupato suo marito, non poteva assolutamente pagare. Io l’ho chiamata e le ho detto di mandarmi tutta la documentazione e non le chiederò neanche un euro. Io ci sono stata dall’altra parte, per questo m’ immedesimo e capisco le situazioni. A 17 anni dormivo su un materasso in terra e facevo da mangiare con un fornelletto da campeggio e pur di non fare un debito vivevo come riuscivo. Io non navigo nell’oro, ho il mutuo sulla casa, un bimbo da crescere ma non mi manca niente. Non vado alla ricerca di qualcosa in più. Ho un sogno nel cassetto: Nelle nostre montagne ci sono delle malghe, dei grandi agriturismi bellissimi in mezzo alla natura. Se un domani dovessi riuscire a rilevarne uno mi piacerebbe organizzare una piccola pensione per il malato oncologico, dove lui possa farsi la sua vacanza ed imparare ad organizzare nuovamente la propria quotidianità soprattutto il cambio alimentare, la preparazione dei centrifugati, la cucina vegan tendenzialmente crudista, ma anche la gestione delle emozioni. Insomma la giusta combinazione tra relax, svago ed organizzazione. Comunque, nel mio piccolo mondo, ho una vita nella quale non manca nulla e non vorrei mai pesare su una persona che magari fa fatica ad arrivare a fine mese. La salute dovrebbe poter essere alla portata di tutti, cosi come la conoscenza.
Sono contraria anche all’atteggiamento di chi organizza seminari molto costosi su queste tematiche. Se un convegno ha lo scopo di divulgare una conoscenza in cui tu credi, che sia sull’alimentazione, sul The China Study, su Gerson, sulla medicina psicosomatica, sulla meditazione trascendentale piuttosto che … ecc ecc e vuoi coinvolgere persone che pensi possano trarne beneficio da questo convegno, non metti le persone in condizione di non poter venire perché non possono permettersi il costo. E’ assurdo! Chi organizza dovrebbe farlo perché crede in un progetto di divulgazione, non per denaro, che al massimo potrebbe essere il rimborso spese.
-Tu mi hai detto che quando lavori su una persona agisci su cinque punti, parlamene …
Sì! Innanzitutto ti dico che il mio metodo di lavoro parte con mio figlio. Leonardo infatti è nato prematurissimo e nonostante alla nascita stesse bene durante il ricovero in incubatrice si beccò di tutto e di più. Fu un periodo disastroso e molto doloroso per me! Nell’insieme di regali dell’ospedale, c’era un’epatite da cytomegalovirus che non si riusciva a gestire. Nel suo primo anno di vita cambiarono diverse terapie nella speranza di risolvere la patologia, ma niente sembrava funzionare, tanto che qualcuno parlava di trapianto di fegato. Fortunatamente una sera mi trovai a guardare un documentario su un signore guarito dal cancro con l’alimentazione e così iniziai ad approfondire e studiare. Tolsi tutte le proteine animali, gli facevo dei grandissimi frullati di insalatone miste, e succhi di frutta freschi. Dopo due mesi le transaminasi erano sistemate e il suo colore da itterico divenne per la prima volta roseo. Leonardo non ebbe più alcun problema epatico e iniziò finalmente a crescere. Questa esperienza mi ha dato l’input per iniziare a studiare alimentazione oncologica e rimedi naturali in oncologia. Poi ad un certo punto la teoria è diventata pratica con la malattia di mio suocero. Due anni fa iniziò a stare male, da lì il ricovero in ospedale e la diagnosi di colangiocarcinoma in stadio terminale, con sentenza di morte a 4/8 settimane al massimo. Per lui non c’era terapia nè chirurgia. Solo un quadro clinico disastroso: colangiocarcinoma, mieloma, trombosi totale della vena portale, cirrosi epatica, scompenso cardiaco, ascite, blocco intestinale grave, ipertensione prima, ipotensione poi, e fibrillazione atriale. Dovevamo decidere tra il rinunciare a lui con la consapevolezza di perderlo da li a poco o il provare a sperare negli umili studi che avevo fatto durante quegli anni. Decidemmo di provare! Passai notti intere a studiare protocolli che nel suo caso erano in continua evoluzione. Per la medicina era un uomo morto. Io come ho potuto cercavo di lavorare su tutti i suoi malesseri, e man mano migliorava qualcosa, cambiavo il protocollo naturopatico andando a lavorare su qualcos’altro. Pian piano i miglioramenti iniziarono a farsi vedere. Il blocco intestinale scomparve dopo circa una settimana, la pressione migliorava e il cuore pure. Dopo tre settimane di protocollo, torno’ alla vita di sempre. Per la medicina doveva essere ad un passò dalla tomba, invece lui aveva ripreso le sue attività: si alzava la mattina alle cinque per andare a funghi, andava a pescare, faceva l’ orto, zappava la terra, si arrampicava sugli alberi e fino a quando il sole non tramontava a casa non si faceva vedere. Era un grandissimo lavoratore. Nessuno credeva fosse ammalato, e i medici più volte misero in dubbio la diagnosi. Anche i marcatori tumorali ad un certo punto non davano segno di attività tumorale in corso. Poi iniziò a sgarrare con l’ alimentazione e a non voler più prendere i fitoterapici perché diceva di star bene anche senza dover fare un spesa comunque importante … Dopo dieci giorni era nuovamente in blocco intestinale e a letto con la polmonite. Quella volta riuscii a convincerlo di riprendere tutto, e curammo la polmonite con l’ argento colloidale anziché l’antibiotico per bocca, e si rimise nuovamente a fare tutte le sue attività. Ma l’ascite quella diventò ingestibile. Iniziarono a somministrargli diuretici perché i drenanti naturali non erano più sufficienti a contrastarla. Ad un certo punto la pressione inizio ad abbassarsi e lui ad essere senza forza. Allettato nuovamente e in fin di vita. Io insistevo nel voler togliere i diuretici perché credevo che la causa del suo malessere fosse dovuta a quelle pastiglie. Il medico invece diceva che era il tumore ad averlo preso e che ormai non c’era più niente da fare. La mia tremenda rabbia nasceva dal fatto di vedere come la medicina tradizionale lo considerasse un uomo morto a prescindere, e non volesse invece approfondire la causa del suo malessere che poteva essere indipendente dal tumore. Questa rabbia la rivivo nelle storie dei miei assistiti. E’ ignobile come un malato oncologico terminale spesso non venga visto dalla medicina tradizionale come ad un paziente che deve vivere bene quel che gli resta ma piuttosto come un paziente destinato a morire punto e basta!
Così iniziai a farlo io, e nonostante fossi incompetente iniziai a studiare i diuretici. Trovai informazioni su come questi diuretici potessero causare disequilibri elettrolitici e su come l’ abbassamento di sodio potesse causare l’iponatriemia. E qui ecco la correlazione con lo stato di salute di mio suocero in quel periodo. Fino a tre giorni prima vangava l’ orto e tre giorni dopo era in un letto morente. L’iponatriemia provoca un abbassamento della pressione arteriosa, stanchezza e debolezza fisica, attacchi di sonno improvviso, coma e morte. La sua pressione minima era andata a 40/45. Tolsi subito i diuretici, naturalmente in disaccordo col medico che mi dava della ingenua e diceva che era una stupidaggine, che era il tumore e bla bla bla … Dopo un breve periodo di tempo la pressione inizio’ ad aumentare lentamente, lui a riprendere conoscenza e dopo pochissimi giorni, forse una settimana, era tornato per l’ ennesima volta alla sua vita.
Queste due batoste credo che abbiano influito molto però sul suo aspetto emotivo, e un po’ la paura e il terrore di non farcela, un pò la difficoltà di mantenere un’ alimentazione e un regime diversi da quelli avuti per 70 anni, un po’ probabilmente il fatto che quando una persona affronta questo percorso dovrebbe essere supportato a 360° anche dall’intera famiglia e dalle persone più vicine che invece non sempre sono in grado di farlo nel giusto modo, alla Pasqua seguente arrabbiato col mondo e con quel cancro maledetto decise per la seconda volta di sospendere tutto. L’ ascite prese il sopravvento. Durante un viaggio in pronto soccorso per fare una paracentesi, la sfortuna fu quella di trovare il medico di turno che mise in discussione nuovamente la diagnosi e decise di ricoverarlo per accertamenti. Lui nella speranza di uscirne con una terapia salvavita si lasciò convincere a restare. Ricordo quel giorno come se fosse oggi. Per me fu una doccia di acqua gelata. Quando mio marito mi telefono’ per dirmelo, io gli risposi che suo padre non ne sarebbe uscito vivo da quell’ospedale. Iniziarono le indagini che riconfermarono naturalmente la diagnosi fatta l’ anno precedente. In ospedale l’ alimentazione è una vera porcheria! Per non parlare delle flebo di glucosata. Le cellule tumorali si nutrono di glucosio, e nei reparti oncologici tranquillamente vengono fatte flebo di glucosio, oppure servite prelibatezze come pasta, pane, budini dolci, aspartame e glutammato, carne e latticini. Praticamente un suicidio diretto. Iniziarono anche antibiotici potentissimi per un’ infezione intestinale probabilmente venuta in conseguenza al blocco intestinale che immancabilmente tornava ogni qual volta lui sospendeva il protocollo che gli davo. Con i farmaci il fegato che avevamo tentato di tenere a bada per un intero anno sicuramente non ne trasse beneficio.
Per non parlare dello stress e della destabilizzazion emotiva che un ambiente come quello ospedaliero genera. In ospedale una persona non ha modo di concentrare il pensiero altrove, alla vita ad esempio. In ospedale ogni pensiero ed ogni respiro ti riportano con la mente alla malattia. Persino l’ aria odora di malattia e il colore delle pareti colorano di malattia. Inoltre una persona non è più padrona di se stessa, della propria dignità. No, non lo è più, perché in ospedale devi fare come dice il personale, andare i bagno quando te lo dicono loro, bere quando te lo dicono loro, saltare il pasto perché un esame diagnostico che doveva essere fatto la mattina è stato spostato per un ritardo nel pomeriggio, e non poter godere della tua famiglia quando ne senti il bisogno affettivo perché sulla porta d’ entrata in grande ci sono scritti degli orari di visita da rispettare. Già, se solo la natura dell’individuo venisse rispettata nello stesso modo, probabilmente saremmo molti passi avanti nella guarigione. Di giorno in giorno lì dentro qualcuno moriva in modo atroce. E naturalmente lui non era immune dal vedere cosa succedeva intorno. Quegli occhi non li dimenticherò mai. Imploravano un’ ancora di salvezza, un … “potatemi via di qui”, una consapevolezza di come sarebbero andate le cose, ma consciamente la sua paura di non farcela e la sua speranza in quella medicina salvavita erano più forti. Dopo una settimana non si alzava più dal letto. Dopo un’ altra settimana non mangiava né beveva più. Spesso veniva cateterizzato perché il personale non sempre aveva tempo per portarlo in bagno.Non tutti usavano modi gentili. Quanti buchi, cerotti strappati senza ritegno alcuno, ferite alla pelle ormai delicatissima, e ferite ancor più profonde, all’anima. Morì dopo un mese e mezzo, senza che sia più riuscito a tornare a casa sua. Ed e questa la mia rabbia più grande. Lui è stato il mio paziente più difficile, innanzitutto perché molte volte avrei voluto essere soltanto la sua naturopata, e altre invece semplicemente sua nuora; Poi difficile nel vero senso della parola, perché non aveva soltanto un cancro, ma una situazione clinica appesa ad un filo … e non è stato semplice lavorare armoniosamente su tutto.
-Questa è una storia davvero emblematica … grazie per averla condivisa …
Tornando hai cinque punti: Il primo è appunto l’alimentazione, igienista, naturale, tendenzialmente vegan crudista. Il secondo è la depurazione dell’organismo andando a lavorare sul fegato, sui reni e sull’intestino. Il terzo è il rinforzo del sistema immunitario perché, come dico sempre, avere delle buone difese durante una patologia è un po’ come avere un buon esercito durante una battaglia. Il quarto è il consigliare dei rimedi naturali in supporto della situazione clinica generale. Il quinto, ma non meno importante degli altri, è l’ aspetto psicosomatico e l’umore. Per umore intendo tutto un insieme di cose, la rielaborazione del trauma che c’è stato, a livello inconscio e conscio, l’ambiente sociale in cui uno vive, l’ambiente famigliare. La famiglia è molto importante perché un malato può metterci anche tanta caparbietà nell’affrontare la malattia, ma se ha una famiglia che rema contro o non lo sostiene nel giusto modo, tutto sarà molto più difficile e doloroso: l’ avere fiducia nell’approccio terapeutico che sceglierà; e l’ aver fede nella propria possibilità di guarigione … soprattutto l’aver voglia di proseguire nella vita … tutto diventa più difficile quando la famiglia non sostiene o rema contro.
-A meno che, il soggetto questione, in un caso del genere –famiglia che non supporta o rema contro- non faccia come quelli che –almeno per un periodo- rompono con la loro famiglia, vanno in un monastero o in qualche luogo particolarissimo e cercano di decontaminarsi dal loro vissuto e dal loro ambiente. Certo … se invece resti a casa tua questo diventa difficilissimo.
Sì … è molto difficile riuscire a guarire quando il tuo ambiente famigliare rema contro e tu non hai quella forza particolare che ti consente di potere cambiare radicalmente ambiente …
-I cinque punti che descrivi esprimono un approccio globale, armonico …
Tutti questi punti sono importanti. Se ne viene tralasciato uno , le possibilità di miglioramento si riducono. Se ne mancano due è ancora peggio. Io credo che la guarigione o la non guarigione sia anche una scelta, non solo un destino. Io l’ho visto anche nel caso di mio suocero. Lui alla fine non c’è la ha fatta, però lui ha scelto che le cose andassero in questo mondo. Magari inconsciamente, ma ha scelto lui il percorso da fare, non sono gli altri a poterlo scegliere per noi. Questo mi trovo a dirlo anche ai famigliari che a volte vorrebbero fare di tutto e di più andando contro alla volontà del diretto interessato.
Mi rendo conto che quando una persona è malata, non sempre ha la forza di reagire. Ci sono delle volte -è brutto da dire- in cui un malato si lascia andare. Ad esempio è venuta da me una signora malata oncologica che fuma da tempo e non smette di fumare, pur sapendo che le fa male. C’è il marito che sta impazzendo per farla smettere, ma lei non vuole assolutamente rinunciare al fumo. Io credo che se una persona delega la propria guarigione ad un’ altra persona diversa da se stessa non ce la farà. Una persona può guarire se si rende protagonista durante la propria battaglia e crede fermamente di poterla vincere, non facendosi sopraffare dalla paura o dalla stanchezza di vivere magari una vita che non la rende felice! Ogni cosa si può modificare, ogni rapporto malsano, ogni situazione difficile, tutto potrebbe avere una svolta positiva. La morte non è un rimedio per chiudere con ciò che ci fa male, lo si può fare anche da vivi. Comunque anche la famiglia gioca un ruolo fondamentale, come dicevo prima. Ad esempio un’altra signora ha cinque figli che gli stanno facendo i turni; due le farebbero tutto il protocollo nel modo più giusto possibile, gli altri tre non credono assolutamente ai rimedi naturali, all’alimentazione, perché ormai la credono morta. Un’altra persona ancora -che ha fatto questo percorso completamente sola- è morta stamattina. Ogni volta che muore un mio paziente è un grande dolore, ogni volta ci resto malissimo; perché mi affeziono alle persone. Questa persona è stata da me quattro mesi fa, le ho fatto il protocollo, tra l’altro gratuitamente. Sembra che non lo abbia seguito per niente. Ha continuato a girare, a girare, a cercare una cura rapida. Bisogna capire che ci vuole anche pazienza, costanza; non è una strada facile da percorrere quella naturopatica. E’ un dispiacere vedere che le persone nella maggior parte dei casi si affidano al percorso alternativo quando ormai la medicina tradizionale non ha più niente da proporre e quando ormai sono in stadio terminale. Che poi può io mi chiedo perché chiamarla alternativa? Quando dovrebbe essere assolutamente indipendente e supplementare? Non è che uno deve necessariamente scegliere la strada naturale e lasciare l’altra. La questione però è che tanti non ce la mettono tutta come dovrebbero.
-Avvilisce quando uno non vuole credere e non vuole lottare fino in fondo, quando non c’è quella capacità di sacrificio, quel sacrifico nobile. Invece è come se tu preferisci una sorta di indolenza, una sorta di eterno bivaccare nel dubbio; ma non fai mai quel salto …
Sì è un dispiacere … Così come lo è quando segui una persona che rimanda e che poi quando si decide è troppo tardi. Quattro mesi fa mi ha chiamato la moglie di un signore che sta malissimo. Io gli ho fatto tutto il protocollo, gli ho spiegato bene, gli ho dato dei consigli. Non li ho più sentiti per quattro mesi. Quella donna mi ha chiamato la settimana scorsa dicendomi che non ha mai fatto quello che gli ho consigliato e adesso che gli hanno dato una o due settimane al massimo, vorrebbe stravolgere tutto. Veramente mi accorgo come tante persone piuttosto di metterci costanza e puntare tutto alla guarigione, si lasciano andare.
-Questa cosa mi dà molto fastidio, perché sento che uno ha il dovere di vivere, ha il dovere di provarci, ha dovere per se stesso di sentirsi vivo … ”hai fatto la cosa?” … “ancora no”… “ma ti avevo detto”: …”hai ragione”… “ma quando la farai?” … “la prossima settimana” …
E poi c’è questa incapacità sia di credere, sia di provare, di spendersi … tante cose le puoi fare anche solo per curiosità … eppure quelli che rispondono “e non dobbiamo tutti morire”? …
E’ proprio così … anche nelle piccole cose quotidiane a volte ci si perde nei meandri di chissà dove e il tempo vola via senza che te ne accorgi, lasciando l’ amaro in bocca per non averlo sfruttato diversamente. Delle volte è anche bello lasciare andare le cose come vengono, accettarle e prendere il positivo dal negativo! Molte persone delegano le proprie responsabilità agli altri, a volte anche sulla propria stessa vita. Tutti nella nostra esistenza in alcuni momenti o periodi abbiamo bisogno di essere supportati per andare avanti, di essere confortati. Ma la strada la dobbiamo percorrere noi con magari qualcuno che ci tenga forte la mano e ci sorregga mentre stiamo per cadere!
“Non mi esprimo sulla scelta altrui, io credo che sia giusto che ogni persona scelga la strada che più la faccia sentire tranquilla! Vent’anni fa ho fatto chemio radio e trapianto di midollo e sono qui ancora oggi a parlarne nonostante gli effetti collaterali che ancora mi accompagnano! probabilmente oggi farei delle scelte diverse a meno che la paura prenda il sopravvento. Indipendentemente sono convinta che lavorare a 360° sia la scelta migliore, cioè non trascurare alimentazione, depurazione, sistema immunitario e aspetto psicosomatico ed emotivo della persona! Sul fatto che la chemioterapia sia tossica credo nessuno possa metterlo in dubbio, a maggior ragione quindi chi sceglie comunque quella strada dovrebbe a mio avviso affiancare tutto il resto per alleviarne gli effetti collaterali devastanti. Credo comunque fermamente dalla mia esperienza personale e professionale che una persona può avere 10000 rimedi e soluzioni al proprio male, ma se non è lei che si rende protagonista della propria battaglia al 100% e delega agli atri o alle terapie la propria guarigione, non è detto che questa arriverà. Ho visto persone con un cancro curabile non farcela perché stanche della vita. Altre dichiarate incurabili vivere con tutte loro stesse! Io non so quale sia il giusto mix, quello vincente al 100%, probabilmente non esiste il metodo infallibile, se non vari metodi e non tutti per tutti; ma una cosa mi è chiara! che l’ umore e il crederci gioca un ruolo fondamentale.
Come disse Nelson Mandela: “Un vincitore è un sognatore che non si è mai arreso!” ed io … Non mi arrendo! Vado avanti nella mia missione e nella mia lotta al cancro iniziata vent’anni fa, e non smetterò mai di ringraziare la vita per avermi dato un’altra possibilità!
Mia cara Maeva…..ho letto molto attentamente la tua intervista e credimi…per più della metà mi ci sono trovato dentro! Cambia il maestro d’orchestra ma la musica rimane sempre la stessa….come ben sai sono uno studioso da ben 30 anni su diverse tematiche…mi sono accorto di una cosa, che tutte le storie delle persone che hanno un problema di natura oncologico hanno un comune denominatore…e cioè voler per forza di cose cambiare prima possibile una situazione che per formarsi ha impiegato degli anni….molti anni, inoltre un’altra cosa che ho imparato è che i peggiori pazienti sono le persone a noi care( e io ne so qualcosa in quanto sono stato messo all’angolo quando ci fu il problema del mio adorato fratello letteralmente ucciso dalla chemioterapia!) ”Nemo profeta in patria” dicevano….niente di più vero! Ma adesso è ora di andare avanti mia cara amica…i tempi sono maturi e la gente( medici compresi ! ) è più aperta a queste tematiche inerenti il proprio stato di salute…..ci dobbiamo credere e lasciare un mondo migliore a chi deciderà di emulare il nostro faticoso cammino! TI VOGLIO BENE MAEVA….COSI’ COME NE VOGLIO ALTRETTANTO AD ALFREDO COSCO E LUIGI QUINTAVALLE PER QUELLO CHE STANNO FACENDO VERSO IL PROSSIMO CHE E’ SEMPLICEMENTE NOTEVOLE!
Sei una donna fantastica ed un giorno, prima o poi, troverò il coraggio di scriverti e di chiederti aiuto. Per ora:un abbraccio
Ho letto questa intervista per caso passando da facebook, queste parole mi hanno emozionato, e indotto a provare una profonda stima per questa persona che non conosco. Che fortuna avremmo se il mondo fosse pieno di persone cosi. Vi lascio solo un grazie. Di cuore
Anche se abitiamo vicine non ti conosco di persona …spero un giorno d’incontrarti…. le tue parole mi hanno riportato a pochi mesi fa quando mio papà ricoverato in ospedale gli hanno tolto tutto anche la dignità …..io in 13 mesi ho perso mamma e papà.Malgrado ti conoscessi su facebook non ho mai trovato il coraggio di chiamarti x provare un nuovo cammino.Ti ammiro