Considero molto importante questa intervista.
Perchè considero la storia che mi ha raccontato Emanuela Troiani una storia paradigmatica.
La grandezza e la miseria dell’essere umano.
La nobilità dell’arte medica e la sua contraffazione.
Il vivere per se stessi e il vivere aprendo il proprio cuore fino a comprendere gli altri.
Ecco le cose che.. a parere mio.. ci sono in questa storia.
E poi, sì, è una intervista che si colloca nel filone delle ricerche e delle interviste che sto dedicando al Metodo Di Bella.
Questa storia si colloca all’epoca in cui era vivo Luigi Di Bella, dal quale, Emanuela Troiani portò la madre devastata da un male, ma soprattutto da una serie di interventi e di cure che, complessivamente, l’avevano portata fin fin di vita.
Quando arrivò da Luigi Di Bella… era “un morto che cammina”.
Nei periodi che seguirono venne considerata “un miracolo vivente”.
Visse altri tre anni, rispetto a quanto era certo che dovesse morire.
Tre anni impensabili. Tre anni di vita. Tre anni regalati a una madre e a sua figlia.
Questa intervista fa intravedere, anche, la straordinaria caratura morale, oltre che scientifica, del professor Luigi Di Bella.
Medico anni luce avanti con i suoi tempi. Uomo che si sottoponeva a sacrifici disumani. E che non accettava denaro per curare.
-Quando sei nata?
Sono nata a Roma il 6 maggio del 1962.
-Tu sei entrata in contatto con la terapia Di Bella per via di tua madre.
Sì… mia madre… Gabriella Di Pietrantonio. Breve antefatto, mia madre si era ammalata di tumore, ma i medici impiegarono molto tempo prima di capire che il problema effettivo era quello.
-In che anno si ammala tua madre?
Dunque mia madre si è ammalata che io avevo trent’anni, dunque 21 anni fa, nel 1992. Adesso di anni ne ho 52. Quando mia madre si ammalò, venne definito che il suo problema era di natura tumorale. Un carcinoma diffuso. In quel momento non si era capita ancora quale fosse la cellula madre. Si manifestavano delle metastasi a livello della gola. Quando facemmo il primo intervento, sembrava si trattasse di una semplice ghiandola salivare. Da lì sarebbero seguiti un altro paio di interventi. Finché alla fine –nel 1992- lo ricordo bene perché era il giorno del mio trentesimo compleanno- viene invece stabilito si trattava di un carcinoma al quarto stadio. Lo ricordo benissimo quel giorno, perché era un giorno particolare. Lo è stato in tutti i sensi. Riguardo al tumore non si capiva da dove venisse. Quindi iniziò un iter di ricoveri, di visite.. siamo stati anche a Parigi. Analisi, controanalisi. Il posto si chiamava precisamente Gustave Villejif Roussy. Un centro spettacolare. Siamo andati lì in due o tre occasioni. Le hanno fatto uno screening assolutamente completo. Il problema era che mia madre aveva delle metastasi, ma non si riusciva a capire da dove arrivasse la malattia. E’ stato scoperto quando ormai era troppo tardi, molti anni dopo. Quando si capì che tutto quanto proveniva da una tonsilla.
-Quindi sostanzialmente stai dicendo che lei aveva un tumore alla tonsilla?
Sì, partiva da una tonsilla. Ma c’è voluto del tempo perché lo si capisse. E mia madre è stata sottoposta –prima che intraprendesse la terapia Di Bella- a sette interventi chirurgici. Setti interventi di cui uno, il penultimo come si usa dire in gergo medico, demolitivo. Il tentativo di togliere tutto il tessuto compromesso, anche a discapito di alcune funzionalità.
-Allora a tua madre scoprono queste metastasi alla gola. Iniziò subito con queste operazioni?
Intanto, in prima battuta, fece un ciclo di chemio e uno di radio. Poi il ripresentarsi delle metastasi ci portò a consultare tutti quelli che erano ritenuti i medici migliori.
-Quando dici ripresentarsi intendi che per un momento erano venute meno?
Ci sono sempre degli intervalli tra una manifestazione della malattia e un’altra. Il problema è che si ripresentavano continuamente. Sette interventi sono stati dovuti a questo ovviamente.
-Ma una di queste operazioni è stata fatta anche in Francia?
In Francia non è mai stata operata. E’ stata operata solo in Italia. In Francia andammo nel migliore centro riconosciuto per capire da dove arrivasse la malattia. Se trovi la cellula madre hai una possibilità in più di evitare i danni.
-E neanche lì lo capirono?
No, ci diedero tutta una serie di possibilità, ma nessuna era conclusiva. Comunque, questo costante ripresentarsi delle metastasi face sì che mia madre venisse operata ogni volta. Tu considera che noi siamo andati avanti sette anni. Mia madre è morta nel ’99. La terapia Di Bella l’aveva iniziata tre anni prima di morire, nel 1996. L’ultimo intervento è stato, come si dice, soltanto di “contenimento”, per evitare che soffocasse. Venne fatto pochi mesi prima che morisse.
-Questi interventi, mano a mano che venivano fatti, che conseguenze portavano?
Diciamo che fino a quando non c’è stato l’intervento più serio, quello demolitivo, si trattava di interventi che andavano a togliere le metastasi cercando di capire da dove provenisse la malattia, senza che si intaccasse in modo radicale. Comunque sia, erano interventi che la lasciavano ogni volta più in difficoltà dal punto di vista della funzionalità. Ma fu quello demolitivo che creò notevoli difficoltà sia dal punto di vista fisico che psicologico. Comunque, emotivamente tutto il percorso ti mette alla prova. Se tu ti vedi sottoposto ad un intervento dopo l’altro, anche la capacità reattiva viene meno.
-Lei ebbe un calo anche dal punto di vista psicologico, quindi.
Ebbe un calo drammatico son il penultimo intervento, quello demolitivo. Lo facemmo al Regina Elena. Fu il professor Marzetti (del reparto di oncologia maxillo facciale del reparto Regina Elena), che purtroppo non c’è più. Un chirurgo straordinario. Una persona straordinaria. Questo intervento venne fatto a poca distanza dal precedente, che era sempre stato fatto nello stesso ospedale, ma in un reparto diverso. Il professor Marzetti, dopo l’intervento, convocò me e mio fratello e ci disse “vostra madre è il risultato di una serie di errori assurdi”. E il fatto che questo intervento si era dovuto tenere a breve distanza da quello precedente, era proprio conseguenza del fatto che il chirurgo precedente aveva fatto un errore gravissimo. L’errore era stato quello di recidere a metà il tumore; una parte lasciarla e una parte toglierla. Fu un disastro; perché le cellule tumorali si sparsero ovunque. Marzetti, che operò mamma nel 1996, ci disse “io ho provato in tutti i modi a togliere il tessuto compromesso. Il problema è che continuavo a trovarne altro. Io non le potevo togliere mezza faccia. Che cosa le avrei potuto togliere ancora? La faccia? La bocca? Quindi, ho tolto tutto quello che potevo togliere… recidendo il nervo facciale.. ma non potevo togliergli tutto… Io più di questo non potevo fare”. In quell’intervento lui aveva continuato a togliere tessuto in tutta la parte del volto che era compromessa. Tieni conto che quando si toglie tessuto, durante un intervento, è vero che l’analisi viene poi fatta fuori dalla sala operatoria; ma già in sala operatoria si fa una prima analisi dei tessuti per capire se quelli compromessi dalla malattia sono stati tolti e se si è arrivati al tessuto sano. Nel caso di mia madre, il tessuto compromesso era sul lato del collo, ma ad un certo punto, pur non essendo terminato il tessuto compromesso, aveva dovuto fermarsi. Perché c’è un limite anche nella chirurgia, oltre il quale non si può andare se si vuole uscire vivi da un’operazione. Comunque, mamma, in pratica, dopo quell’operazione, aveva metà collo. Già fui sconvolta per le condizioni in cui la vidi uscire dalla terapia. Mi venne subito l’alopecia. Mamma da quel momento ha avuto difficoltà a mangiare, a bere, a parlare. Mamma aveva metà collo. Credimi, non sto esagerando dicendoti che mi venne immediatamente l’alopecia. Lui era ben consapevole dei limiti oltre i quali non poteva andare e della condizione di mia madre. Infatti ci disse anche “alzo le mani, non posso più fare nulla. Vostra madre non ha più speranze”. Mia madre ebbe un crollo psicologico gravissimo. Non voleva più mangiare, non voleva più vivere. Devo dire che i medici la seguirono con un amore incredibile. Cosa di cui non avevo visto neanche l’ombra in molti altri posti e in molti altri reparti. Cercarono di puntellarla, di sostenerla in tutti i modi; di tirarla su anche moralmente. Ma lei, chiaramente, dopo anni, dopo cure, dopo tutto quanto era possibile, ebbe un crollo. Comunque, arrivati al momento di dimetterla, in una conversazione con Marzetti gli chiesi “bene, io la porto a casa, che le faccio?”. E lui “ma io dove la mando? .. dove posso mandarla? Qualunque oncologo a cui mandassi una paziente come sua madre, mi chiamerebbe e mi direbbe “ma chi mi hai mandato”? Perché purtroppo non c’è più niente da fare”. E aggiunse: “mi porti una qualunque terapia..a la valutiamo insieme”.
-Un vero calvario.
Un calvario non solo dal punto di vista medico, fisico; ma una vergogna dal punto di vista umano.
-Che intendi?
Ti faccio un esempio. Andammo da un illustre professore, qualche mese prima di quello che ti sto raccontando. Era la fine del mese di luglio. Arrivammo lì. Cinque minuti di visita, ottocento mila lire di parcella. E lui ci disse candidamente “Bene, ci rivediamo a settembre”. E noi “Professore.. un mese.. senza niente.. andiamo avanti così?”. “Sì, sì.. non vi preoccupate.. in un mese non può succedere niente di grave. Ci rivediamo a settembre”. Ci ripresentammo all’appuntamento che era stato fissato per settembre. Ma alla reception di quello studio ci dissero che il professore era andato in pensione. Capito? Non solo.. sto ancora aspettando le fatture di altri professori che hanno visitato mamma. In un ospedale si rifiutarono di richiedere la macchina per l’alimentazione parenterale, perché non volevano mamma lì. Io continuavo a dirmi “datemi il tempo di organizzarmi a casa. Intanto chiedete questa benedetta macchina”. Ero anche andata all’università dal professor Cappello, che l’avrebbe data, con inclusi i flaconi contenenti le sostanze nutritive. Ma, giustamente, per darmela a casa aveva bisogno dell’iter burocratico dell’ASL, delle richieste ufficiali, ecc. ecc. Invece se la richiesta l’avesse fatta un ospedale, gliela avrebbero mandata in 24 ore. Mia madre l’hanno fatta morire di fame per una settimana. Perché non la volevano, la volevano via, fuori.
-Perché non la volevano?
Perché i pazienti che muoiono negli ospedali alzano le percentuali negative. I pazienti oncologici ormai spacciati non li vogliono. Questa è la mia esperienza. Mi auguro che altra gente ne abbia fatte di migliori. Io provo rabbia ancora oggi. In un altro grande ospedale di Roma sono stata rimproverata di essere una pessima figlia perché lasciavo mia madre lì dentro, quando invece stavo aspettando la risposta dell’Asl per l’assistenza a casa, per l’alimentazione. Tant’è che il professor Cappello, mi disse –un giorno che andai da lui disperata- “sa che c’è signora Troiani? La macchina gliela do’ anche fuori dalle regole. Questa è la macchina e questo è il cibo; se le porti a casa”. E quando dissi a questo grande ospedale di Roma “sono riuscita ad avere tutto, mi manca solo l’aspiramuchi”; loro me ne diedero uno vecchissimo dicendomi “eccolo, se la porti a casa”. In quello stesso ospedale un medico mi disse “lei è una figlia indegna perché lascia sua madre qui, quando lei vorrebbe stare a casa sua”. Io risposi “Io sono una figlia indegna? E voi che gente siete? Che volete mandare fuori una paziente quando i parenti non sono riusciti ancora ad organizzarsi. Certo che me la voglio portare a casa; oppure secondo lei preferisco venire ogni giorno a trovarla a Roma?”. E lui “Evidentemente non fa abbastanza”.
-Davvero belle persone..
Mamma è tornata a casa con nostro piacere, con nostra e con sua gioia, perché finalmente stava a casa sua. Abbiamo istituito turni. Eravamo in tre persone; io, mio fratello e la sorella. Non la lasciavamo sola mai, perché aveva bisogno di terapie continue. Ma questo è accaduto quando ormai eravamo alla fine. Prima però c’è stato il momento migliore. Quello con Di Bella. Un momento che è stato davvero un miracolo. Marzetti e Di Bella sono state due luci dopo tanti anni.
-Raccontami l’incontro con Luigi Di Bella?
Dopo l’intervento demolitivo di cui ti ho parlato, sono andata -il giorno prima della dimissione di mamma- da Marzetti per dirgli che mia mamma non era una sciocca. Aveva lavorato dieci anni in farmacia, e avevamo amici medici. Se la portavo a casa, senza più una terapia, avrebbe mangiato la foglia, se non l’aveva già mangiata fino a quel momento. Lui mi disse “mi porti qualunque terapia. Non posso mandarla da un collega, però posso seguirla io”. A quel punto mi ricordai di un’amica giornalista che mi aveva parlato di Luigi Di Bella. In quel momento non se ne parlava ancora molto. Non era ancora venuto fuori il boom mediatico e da questo fui molto avvantaggiata. Andai presso l’Aian e, tramite l’associazione, ebbi un appuntamento a Modena. Era il 1996. Autunno probabilmente.
Partimmo la mattina presto e, arrivate a Modena, trovammo il suo studio pieno di persone in attesa di essere visitata. Aspettammo finché non toccò a noi entrare. Non dimenticherò mai quel giorno e questo uomo dalla dignità straordinaria. Entrammo e, a differenza di quello che avevano fatto molti altri medici prima di lui -molti cosiddetti luminari- prese la cartella clinica di mamma, un vero tomo, e la lesse in profondo silenzio per almeno mezz’ora. Penso che non abbia tralasciato nemmeno le virgole. Dopodiché fece alcune domande. Mia madre non sentiva bene e il professore parlava con un filo di voce; per cui io facevo da ponte. Lui prendeva appunti. A un certo punto disse a mia madre che l’avrebbe visitata e accadde una cosa che mi colpì molto. Non so se ti è mai capitato di andare a fare una visita in ospedale. La prima cosa che ti dicono è “si spogli”. Poi c’è gente che entra, esce, bussa, si affaccia. Lui, invece, non chiese a mia madre neanche di togliersi la maglia. Infilò con delicatezza le mani, con lo stetoscopio, sotto la maglia, toccò la gola. Una visita molto attenta. Sembrava “un medico di altri tempi”; uno di quelli che ancora usavano le mani e il raziocinio per capire. Dopo questa visita, disse che aveva bisogno di una risonanza a dodici scansioni per entrare nel dettaglio. E aggiunse “anche se, secondo me, dovremmo trovare questo, questo, questo e questo”. Fu una vera anticipazione del risultato dell’esame. Ricordo bene, ad esempio, che mi disse che avremmo trovato tutti i linfonodi compromessi. E così fu. Comunque, quando fece questa diagnosi con la prescrizione dell’esame da fare, io gli dissi: “Professore che pensa potrebbe avvenire con la sua terapia?”. E lui mi disse -per fortuna a voce bassa con mamma che non poteva sentirlo- “Signora, io debbo essere onesto. La mia terapia viene veicolata nel corpo attraverso i vasi sanguigni. Tutti gli interventi chirurgici che ha fatto sua madre inevitabilmente creano una barriera. La terapia non può arrivare là dove è necessario che arrivi. Quello che posso dare a sua madre è un contenimento del problema. Ma, glielo dico subito, non faccio miracoli. La verità è questa. I vasi sanguigni di sua madre a livello della gola sono tutti legati. La terapia lì non arriva. Sicuramente ne potrà trarre un beneficio a tempo determinato, ma non una cosa risolutiva”.
-Era come se quei vasi sanguigni fossero tagliati?
Quando vieni operato alcuni vasi sanguigni vengono legati, vengono chiusi; non c’è più l’irrorazione. Nel momento in cui tagli non è che le vene le ricongiungi. Alcune si ripristinano, ma non tutte. E’ un po’ come se si fosse in una zona a traffico limitato. Lui fu molto sincero. Mamma non sentì quello che disse. Io le mentii dicendole “il Professore vuole vedere prima l’esito di questo esame, poi torniamo e imposta la terapia”. Facemmo questo esame molto velocemente –anche perché avevo Marzetti che mi aiutava- e nel giro di pochi giorni tornammo a Modena con l’esito dell’esame. Il professore impostò una terapia specifica per mamma. Il giorno dopo tornai da Marzetti perché avevo bisogno della prescrizione; quella che avevo era una ricetta bianca. Quando gli portai la trascrizione della terapia, Marzetti, dopo averla letta con molta attenzione, mi disse: “però.. sicuramente non è una cosa empirica.. anzi devo dire che ha una sua logica”. Siccome la somatostatina era specifica per le malattie che trattavano in un reparto diverso dal suo, quello di endocrinologia, mi mandò dal primario di quel reparto per farmi fare la prescrizione. Mamma fu una di quelle persone che non ebbe mai il problema di avere la sandostatina. Restammo d’accordo con Marzetti che il prosieguo, le visite di controllo generiche, le avrebbe fatte lui. Quando Di Bella ci diede la ricetta, ci indicò la dottoressa Angelini che stava a Roma, in modo che ci potessimo evitare ulteriori viaggi. Voglio dire che la prima volta che andammo da Di Bella, quando gli chiesi “professore, quanto le devo?”; lui rispose “signora, già sua madre sta male, già vi siete dovuti fare due ore di viaggio e dovete tornare, con una fatica che solo sua madre sa qual è, e io le chiedo anche soldi?”. Io rimasi senza fiato, perché neanche immagini quanti soldi avevamo dovuto tirare fuori fino a quel momento. Io gli risposi “capisco professore.. però…”. Come a dire “lei sta facendo la sua professione”. Lui mi guardò e –mi viene il nodo in gola ogni volta che ci penso- mi disse “signora non si preoccupi, faccia stare bene sua madre”. E così fu anche nelle altre occasioni che andammo da lui. Non volle mai nulla.. mai. Io provavo a dirgli “va bene Professore.. li prenda magari per la sua ricerca”. E lui.. “non si preoccupi, i soldi per la mia ricerca ce li ho”. Ho i brividi ogni volta che parlo di lui e anche di Marzetti, perché anche lui non volle mai soldi. Comunque, tornata da Roma entrai in contatto con l’Angelini. A quel punto ebbi l’Angelini –una donna verso la quale ho enorme stima- come referente specifica e oncologa per la terapia; e Marzetti che ci seguiva. Iniziammo la terapia. L’associazione ci diede l’apparecchio per l’infusione della sandostatina e la dottoressa mi spiegò come applicare tutto. Dopo tre o quattro giorni dall’inizio mia mamma, che era una persona capace, imparò a farlo da sola.
-Come fu l’impatto della terapia?
Nel giro di pochi mesi mia madre riacquistò energia. Dopo tre mesi dall’inizio, era rifiorita al punto che le regalai un viaggio a Cuba e lei partì da sola. Una persona che non doveva più essere viva. E’ andata con un viaggio organizzato, in un gruppo. Ma non è partita con l’accompagnatore. Questo vuol dire che aveva una sua autonomia. Ogni volta che la portavo in visita da Marzetti –che la voleva vedere periodicamente- lui riuniva tutto il suo staff. E mi diceva “signora, sua madre è un miracolo che cammina. Io voglio continuare a vederla perché voglio capire, voglio vedere come va”.
-Era molto onesto. Davvero un medico intellettualmente onesto.
Non so se lui di sua spontanea volontà mandò altri pazienti a fare la terapia Di Bella, perché non me lo disse mai né mai lo seppi. Ma certamente ne era incantato. Ogni volta riuniva tutto lo staff ed esaminava tutti gli elementi. E ogni volta diceva “non ci posso credere”. Purtroppo morì prima di mamma.
-Di cosa morì?
Se non ricordo male un ictus o qualcosa del genere. Marzetti fu anche quello che capì la provenienza –da una tonsilla- del tumore. A noi disse: “Se foste venuti subito da me avremmo tolto la tonsilla e sua madre sarebbe stata bene”.
-Come andò poi con tua madre?
Visse tre anni, dall’inizio della cura. Tre anni! Tre anni non sono pochi per un paziente che sarebbe dovuto morire di là a poco. E dall’inizio della cura non ha più avuto metastasi; tranne che alla fine. No ha avuto mai un dolore. Per quasi la totalità di quei tre anni non ebbe problemi particolari, tranne per gli ultimi sei mesi, che furono brutti. Fino a quel momento la terapia aveva limitato molto i problemi; però, nel punto preciso dove lei aveva subito gli interventi, nella parte di gola dove c’erano stati tagli su tagli, la gola si era via via chiusa e, l’ultimo intervento –fatto nel cosiddetto “grande ospedale di Roma”, l’ospedale San Giovanni- fu un intervento di trachetomia. Già, dopo l’intervento demolitivo, esisteva la difficoltà a mangiare. La chiusura della gola fece il resto, impedendole di mangiare normalmente. Nel corso del tempo eravamo passati da una alimentazione morbida ad una alimentazione semiliquida, poi ad una alimentazione liquida, finché non è bastata neanche quella. Nel frattempo, mentre mamma era ricoverata, avviai l’iter all’ASL e andai dal professor Cappello al Policlinico di Roma, per avere l’alimentazione parenterale e, quando l’abbiamo riportata a casa, neanche 2 mesi dopo è morta. Il crollo c’era stato 3 o 4 mesi prima. E’ stato un crollo repentino. Eravamo con lei ventiquattrore su ventiquattro, per non lasciarla mai sola. E dovevamo anche cercare di riuscire a lavorare. Sembra paradossale, ma la vita non si ferma e tu devi continuare a lavorare. Ci eravamo organizzati –come ti dicevo prima- io, mio fratello e mia zia, facendo i turni, ventiquattrore su ventiquattro.
-Tu che lavoro fai?
Mi occupo di comunicazione, faccio grafica, pubblicità e, avendo un lavoro autonomo, non potevo dire “abbasso la serranda”. Comunque mamma non stava mai da sola. C’erano dei momenti in cui stavamo anche tutti insieme. Comunque avevamo tutto un ruolino di marcia; lei quasi ogni ora doveva prendere un farmaco per la terapia che continuava a fare e che la metteva al riparo dai dolori. Con la dottoressa Angelini avevamo approntato tutto quello che andava fatto ed era abbastanza complesso, però ci eravamo organizzati bene. Molto probabilmente.. credo.. spero.. che non se ne sia accorta. Ad un certo punto si è addormentata e così è andata via. Però per fortuna non ha subito quel crollo fisico, di consunzione che molte volte hanno i pazienti oncologici. Lei era certo dimagrita, ma non era scheletrica. Aveva una buona capacità fisica e non ha mai avuto dolori. Mamma si è addormentata perché, ad un certo punto, molto probabilmente, non ha più respirato, le si è chiuso tutto.
-E già questo è importantissimo.. anche già solo questo risparmiarsi tanto dolore.. tanta sofferenza..
Tre anni di vita sono tanti. Quando tu puoi godere della presenza di tua madre per altri tre anni, è un dono enorme. Non vorrei rivivere gli ultimi due mesi.. ma gli anni precedenti lei è stata bene, usciva, vedeva le sue amiche, viaggiava. Faceva le cose che normalmente si fanno. Con qualche deficit funzionale lasciato da quell’intervento? Sicuramente sì. Ma non ha vissuto tre anni a casa seduta su una sedia. Mamma ha vissuto tre anni pienamente. Era autonoma. Tanto è vero che, quando mi spostai a vivere qui a Torvaianica e presi una cosa, non venni a vivere da lei, perché aveva le sue abitudini, amava le sue cose, i suoi ritmi, ecc.. io avrei fatto quasi una invasione. Invece, vivendo vicine, stavamo insieme e, ogni tanto, dormivo là. Era un contesto quasi normale. Poi, naturalmente, quando è stata male, questo è cambiato, ed eravamo sempre da lei.
Anche il nostro medico di famiglia, Massimo Molinaro, che seguiva mamma per tutte le prescrizioni, per tutte le cose necessarie diceva la stessa cosa di Marzetti. “Quando guardo tua madre non ci posso credere. Non credo a quello che vedo”. E non dimenticarlo mai, noi eravamo arrivati da Di Bella che eravamo disperati.
Avevamo cercato ovunque, come tutti quelli che hanno una persona cara che sta male. Cerchi di trovare luce dovunque, una sorta di pellegrinaggio dai “migliori”. Poi c’è chi se lo può permettere e chi non se lo può permettere. Noi abbiamo potuto fare qualcosa di più rispetto ad altri. Parigi devo dirti la verità è un centro straordinario, ci siamo andati all’inizio del calvario, ci hanno dato una serie di informazioni assolutamente attente. Ci hanno detto quali erano gli organi bersaglio che potevano essere colpiti. Qui siamo stati da tanti grandi luminari, ma il risultato di tutti questi incontri ce lo diede Marzetti “sua madre è il risultato di errori macroscopici”. Io devo tantissimo a Marzetti, a Di Bella, e verso la dottoressa Elisabetta Angelini, verso cui nutro una stima incredibile.
Negli anni mi sono trovata ad operare nel contesto della mia professione sempre più spesso in ambito medico. Mi sono occupata di una rivista che si chiama “sala operatoria” che mi ha portato sempre di più ad entrare in contatto con il mondo medico. Posso dirti che c’è tanta gente che si dedica alla professione con quella dedizione che il Giuramento di Ippocrate vorrebbe ci fosse. Quindi la gente che ci crede e si impegna c’è, ma c’è anche un sacco di fuffa. Ancora oggi mi domando come può un uomo che sa che tra un mese andrà in pensione prendersi 800mila lire per fare una visita di cinque minuti. Con quale etica.
-E comunque credo che anche tu il più grande medico d’Europa dovrebbe sempre chiedere una cifra onesta.
Ricordo benissimo che quella visita, la visita dal tipo che ci aveva chiesto 800mila lire la volle una coppia di amici di mia madre. “E’ bravissimo, ci dovete andare”. Mia madre disse “Io non ce la faccio più neanche economicamente.. cinquecento, quattrocento, trecento.. ora ottocento.. ma chi li l’ha?”. Loro dissero “te la paghiamo noi, ma ci devi andare”. Immagina quindi, anche la solidarietà che si stringe intorno alle persone malate. Quella protezione che anche gli amici mettono.
Poco dopo l’inizio della terapia di mamma nacque il “caso Di Bella”. Io ero nel primo sparuto gruppo.. eravamo 14 persone a disegnare le lenzuola di notte, a fare volontariato, quello vero.
-Tu quindi partecipasti ai primi gruppi che avrebbero dat0 vista alle proteste…. Sempre nel 96?
Sì.. .. 96.. 97.. cominciammo ad organizzarci. Eravamo un gruppetto di parenti e di pazienti. Eravamo entusiasti.. ci dicevamo.. “ma questa cosa è troppo bella..”. “Questa cosa la gente la deve sapere, la deve conoscere. C’è l’Associazione. Ci sono i medici. La gente ha il diritto di essere curata come meglio crede”. Mentre il Professore diceva “per favore state zitti, perché il giorno in cui questa terapia, che va contro tante lobby, verrà resa pubblica la gente non si potrà più curare. Ci faranno la guerra”.
-Questa frase la sentisti tu direttamente?
No tramite alcuni medici. Dicevano “il professore non è contento di questo. Perché è sicuro che, una volta che questa storia esploderà e diventerà un caso, sarà scomoda e ci faranno la guerra. E così fu”.
-Quindi voi eravate 14 persone all’inizio..
Ricordo che eravamo in associazione una sera e ci mettemmo d’accordo per andare a fare casino al Ministero della Sanità. All’epoca c’era la Bindi. E cominciammo con la prima manifestazione spontanea. La sera prima ci riunimmo tutti con le lenzuola prese da casa, a disegnare sopra le scritte “i pazienti hanno il diritto di cura”. Ricordi la canzone “La Cura” di Battiato? La facemmo diventare il nostro inno. Quando si parlava di Di Bella si parlava di quella canzone che era perfetta, straordinaria. Divenne l’inno perché rappresentava esattamente il nostro pensiero.
-Una canzone perfetta, insuperabile.
Posso dirti che è stata adottata congiuntamente da tutti. Fu un periodo anche di volontariato intenso.
-Racconta.
Facevamo volontariato negli studi dei medici che prescrivevano quella terapia. Studi in cui c’erano delle file che arrivavano fino in strada. Credo di non avere mai visto nulla di simile. Cercavamo di dare una mano. Aiutavamo nelle cose più pratiche. Aiutavamo i medici, cercando di rendere loro la vita più semplice, sostenendo le persone che stavano in fila un’ora, due ore, tre ore, per aspettare il loro turno. Insegnavamo loro come funzionavano gli infusori. Facevamo quella che si chiama solidarietà. E scendevamo in piazza quando era giusto farlo. Facevamo lo sciopero della fame e della sete. Con noi c’erano anche i pazienti. Quelli che stavano meglio ci volevano essere, perché erano esempi. C’è gente che è viva ancora oggi.
-Quindi il gruppo che all’inizio era di 14 persone..
Cominciò a crescere. Molta gente si aggiungeva spontaneamente. Alla fine era un cordone di solidarietà che faceva impressione. Ci aiutavamo per trovare le medicine. Chi le poteva avere se ne faceva prescrivere scatole in più e le faceva avere a chi non poteva. Si facevano staffette per andarle a comprare fuori dall’Italia. Difficile raccontare tutto quello che si è sviluppato. Si dice che nei momenti peggiori viene fuori la parte migliore dell’essere umano. Posso dire che è proprio così. Non ho mai visto tante cose belle, emozionanti, come quelle vissute in quel periodo. Gente che si aiutava.. a zero lire. I farmaci in più che avevi li mettevi a disposizione. Legale, non legale, quando serve si fa. Perché di fronte alla morte non è che puoi stare a dire “questo è corretto”, “questo non è corretto”. Basta che sia pulito, etico e onesto. Perché la vita di mia madre era sacra e importante. E anche quella delle altre madri, figli, fratelli.
-Sì, perché ci sono in gioco vite umane.
Poi ci fu la cosiddetta “sperimentazione ufficiale”. Avevamo tanta gente che veniva a raccontare delle cose assurde. Venivano con flaconi di miscela multivitaminica che puzzavano di acetone. Le portavano da noi le mettevamo via, e gliene davamo di buone. Oppure ci dicevano “stiamo facendo il protocollo sperimentale e voi dite che ci vogliono almeno tredici ore di infusione, qua ci fanno fare un intramuscolo. Allora spiegavamo loro, come, all’interno del corpo, l’emivita del farmaco è breve; quindi, affinché si fosse copertura per ventiquattro ore, devo rilasciare il farmaco almeno tredici ore. Se fai l’intramuscolo, qual è la mia copertura? Quella sperimentazione fu uno scempio.
-Sto pensando ancora alla frase che hai detto, come nei momenti peggiori emerge il meglio dell’essere umano.
Sì, è una cosa che penserò sempre, perché ho visto che è così. E voglio anche ripetere, per l’ennesima volta, i nomi di due uomini che non potrò mai dimenticare. Il professore Marzetti e Luigi Di Bella.
-Grazie Manuela.