“La stessa onestà sempre e comunque
nel bene come nel male
l’applauso e nella sconvenienza
mai nella convenienza
lo stesso Amore nella luce e nel buio
lo stesso che ha permesso alla tua vita
di incontrare altre vite
per fondersi in un contatto definitivo”.
Sono cinque anni che ti conosco, Ciro. Da quando Maria Luce mi fece leggere la tua “quando ci ricorderemo che … ” Qualche tempo dopo cominciai ad incrociarti, fino a quando ti chiesi di leggere qualche altra tua opera.
E tu mi inviasti i file con molte delle tue poesie. Poesie che incominciai a leggere su facebook, ogni volta che le pubblicavi.
E rimanevo stupito di quanto fossero chilometriche, incontenibili, di quanto si scatenassero, non conoscendo mai una fine. Una fine naturalmente la conoscevano, ma prima c’erano tante righe da leggere. E si capiva che non aggiungevi parole a caso, e non divagavi tanto per divagare.
Ma scrivevi scatenato quasi da un furore omicida, e, allo stesso tempo, da una sorta di doloroso e violento amore. Il conto delle cicatrici si intrecciava con la forza del riscatto, con le parole gettate come palle di fango su pupazzi di neve e come palle di neve su volti addormentarti e stanchi, come a volerli svegliare da un interminabile sonno, da un interminabile sonno senza sogni.
E l’indignazione faceva un falò di tutti i balli in maschera dell’ipocrisia. Sono un colpo ai testicoli certe tue poesie, per quanto sono dure, per quanto non fanno sconti. Ma l’indignazione e la rabbia, non hanno mai avuto l’ultima parola. TI ho visto cavalcare, in altri brani, in un omaggio vigoroso al mondo, spezzando le bacchette di legno di tutti i maestrini, dei professori dell’opera, buttando dal palco gli scimmiottatori a pagamento, spingendo, con sante pedate a correre ancora,
Perchè c’è sempre un anello.
“Ti accorgerai
che comunque
nei giorni chiari e in quelli bui
hai sempre trovato un anello
in ogni tempo
con ogni tempo
e sia nel sole che nella pioggia
tu lo hai sempre portato al dito
come una fede nuziale
come un matrimonio benedetto di suo”.
In vittoria e sconfitta, in sfortuna e fortuna, in odio e in amore, per odio e per amore. C’è sempre un anello. In ricchezza e violenza, in ponti a bucarsi, o a raccattare la vita, sotto i vetri col vapore, o bruciati da un sole benedetto. C’è sempre un anello. Nella miseria di chi dimentica il suo nome, di chi si frantuma per strade frantumate, e in chi si trova, sotto l’avallo spurio delle canzoni, della pittura, di tutti i tuoi “colori”.
Si nasce sbagliati, quasi già con una cicatrice sul braccio, un marchio di fabbrica, una promessa di tempeste future. Con un turacciolo alieno si stappa il proprio vino nel mondo, sapendo che qualcuno non lo berrà mai , qualcun altro lo sputerà per terra, altri ne faranno liquido seminale, altri ancora parte di un graal metropolitano.
Hai cercato da sempre la tua gente, la tua razza, il tuo piccolo popolo, la tua musica. E quando finalmente ti sembrava di averli trovati, il godimento fu breve, come un coito trattenuto da tempo, ma che esplode in pochi istanti. E cominciò la sarabanda delle bastonate. Vi vennero addosso come mastini. Strapparono i vostri fogli colorati. Vi spinsero nel ghetto.
E fu l’eroina a prendere gran parte dei tuoi.
A tutti bastava puntarvi col dito.
A nessuno importava chi eravate.
E conoscesti luoghi freddi, le stazioni ultime della periferia, le stazioni dove i treni non vanno mai, perché hanno paura, e dimenticano anche che esse esistano, vogliono dimenticarle, mentre il cartello sbiadisce sotto la neve. Facesti il valzer delle comunità, dove con sorrisi al neon, vi riempivano di veleno per sedarvi.
E chi non ti riempì di veleno, quasi ti uccise con la sua purga di purificazione.
E quando non eri in comunità, vagavi per le strade, dormivi in letti sconosciuti, ti trovavi sotto i ponti, piangevi forse, sotto il peso di una inarrestabile caduta, che trascinava con se anni, e ti violentava col senso di colpa, mentre tu non ti facevi portatore in-sano delle derive.
“Ti parlerò del prima che spinge come uno stupro al dopo
e del dopo stuprato da quelli di prima
ti parlerò di morti che parlano di vita con alito cattivo
e di Angeli con alito neonato morti senza denti del giudizio
ti parlerò di vite nascoste alla vita
di viventi che fingono di non vederle
e di sapienti che dicono di non sapere”.
Eppure, quegli anni furono le tue stigmate.
Furono ombra e veleno, solo per chi ha gelatina negli occhi e carne rancida.
Ti riempisti di volti. Ti riempisti di storie. Ti riempisti di occhi che ti guardavano spalancati, occhi grandi come il tuo angelo della stazione, quella ragazzina circondata dagli angeli.
Dalla tua guerra portasti l’infinito odio verso l’ipocrisia, portasti l’assoluta perdizione del tempo, e quindi il saperlo beffare, mostrandogli il culo, portasti l’amore per tutte le piccole cose, come il sorriso sdentato di un barbone, e la chitarra di un vecchio folle, che vuole continuare ad avere la strada, e non un confortevole alloggio dei servizi sociali. Portasti il valore delle parole, che non sono cazzate, polvere da soffiare via, che non si buttano alla rinfusa, ma solo come pietre, le parole sono pietre.
Portasti l’ineffabile dedizione del masticare amaro, ma continuare, masticare amaro, ma, “porca puttana, io sono qua”. Portasti il ricordo del futuro, quello che, vagando per le tagliole delle periferie, intravedevi, come scandalo e scommessa. Portasti tutta la tua poesia, così violenta, così inarrestabile, così sfregiata di passione. Portasti l’amicizia che arriva dai semplici, da chi spezza anche il suo unico pezzo di pane con te, e ti dà la sua coperta, anche se è la sua unica coperta. Portasti la lealtà nella disperazione, la lealtà di fronte al plotone di esecuzione, quando tutti scappano.
“Loro mi hanno insegnato la dignità di essere fedeli a ciò in cui si crede, a niente altro, a non rinunciarvi mai, e soprattutto a credere, senza ombra di dubbio”.
Portasti tutto questo con te, quando uscisti dalla notte, avendo deciso di morire per la vita, e così vivere, uno dei pochi a salvarsi tra tutti voi. Uno dei pochissimi a scamparla. Una mosca bianca sfuggita al cimitero che avevano preparato per voi.
Fu una scelta profonda, nata forse quando, sotto una doccia infame, e lo stomaco che si libera, quel giorno in cui credevi di dare in pasto a Dio, i tuoi ultimi attimi, amasti questo treno che passa, questa assurda vertigine, questo sputo che torna, colorato di cielo, questo sogno dannato e bellissimo che è la vita.
Finì l’eroina.
Ma non finì il corpo a corpo.
Vennero altri demoni, preparati dal passato. E dovesti ancora una volta mostrare il pugno nudo.
Se penso a quante volte saresti dovuto essere morto, mi viene da dire che tu sei una delle prove dell’esistenza di Dio.
Perché in un mondo dominato dal caso e da atomi incrociatisi per sbaglio, questo continuo sfuggire alla legge delle probabilità è davvero difficile da capire.
Sei il bambino che nel casinò vince contro il banco, nonostante il banco abbia tutta l’esperienza, nonostante il banco abbia tutto il capitale, nonostante il banco abbia le carte truccate. Eppure quel bambino vince.
Sei il ronzino azzoppato che arriva al traguardo.
Sei il condannato da sempre, che è ancora, nonostante tutto, libero.
Sei la collezione di necrologi antipati, che non si sono realizzati.
Saresti dovuto morire mille volte, dannato Ciro.
Ma continui tenacemente ad ostinarti a vivere.
“Corro
raggiungo il bimbo bendato
lo rimetto dentro
al sicuro nel io stomaco
carico in spalla il ragazzo inchiodato e crocefisso
lo aggiungo alle ossa della schiena
sento la croce alleggerita da due ali
le Madonne del dolore non dimenticano i figli
il peso è meno sfibrante
meno che che sopravvivere in buona salute tra cannibali istituzionali
accolgo nell’anima l’uomo e la sua prostituta
e quello del sesso disperato
apro i polmoni al ragazzo incarcerato
il mio corpo sarà la casa della donna stuprata dagli strozzini
il mio cuore la casa per tutte le famiglie tradite.”
Non si nasce per sbaglio, ormai credo da un pezzo. E non si muore neanche per sbaglio. E ancora non è il tuo tempo di mollare la pellaccia.
Certo, non ti è stato proprio risparmiato nulla.
In questi giorni stai vivendo forse la prova più estrema di tutta la tua vita.
Hai maledetto il cielo, e ti sei augurato la morte, ancora una volta.
E’ stata forte, quel giorno, la tentazione del balcone. Quel balcone ti invitava a darci un taglio.
“Non sei ancora stanco Ciro Campajola? Non ne hai abbastanza”.
“E’ il bambino il padre dell’uomo
il passato è presente nel futuro
noi siamo solo un cuore che batte di passaggio
un pulsare che cambia dal tramonto all’alba
giorno dopo giorno
io cerco la maniera affinché il battito di oggi
somigli a quello di ieri
cammino sul mio filo rammendato
per non cadere nella fredda apparenza del tuo mondo
per non perdere il cuore che partorì mia madre”
E ti vedo di nuovo continuare.
Di nuovo prendere bisaccia e sandali.
Hai ancora cose da dire, hai ancora cose da fare.
Avresti voluto una vita più semplice, una vita più tranquilla, una vita meno estrema.
Ma è il prezzo che si paga quando si nasce…
in direzione ostinata e contraria.