Questa vicenda è passata di sfuggita in Italia. Ci sono state tracce di essa su qualche organo informativo, ma senza che le si desse particolare spazio come è avvenuto in altri paesi europei, specie Inghilterra e Spagna e senza che si verificasse neanche l’ombra dell’indignazione generale che si è verificata in quei Paesi. Si può dire che si tratta di una di quelle tante notizie che da noi sono sostanzialmente sconosciute.
Io devo ringraziare l’amico musicista e giornalista Fausto Bisantis che mi ha segnalato la vicenda e mi ha spinto a scrivere un pezzo.
Ashya un bambino di cinque anni affetto da un grave tumore al cervello.
La diagnosi di tumore cerebrale era emersa dopo che il bambino aveva sofferto di tutta una serie di sintomi di cui i medici non riuscivano a spiegare l’origine.
Una volta diagnosticatogli il tumore, Ashya venne portato al Southampton General Hospital, in modo che potesse essere operato al cervello e ricevere le altre cure adeguate al suo caso.
In prima battuta ad Ashya è stata fatta l’operazione al cervello. Un’operazione devastante che lo aveva lasciato “come un vegetale ad occhi aperti”. In quei giorni, per permettergli di dormire,i genitori dovevano tenergli le palpebre chiuse.. La sofferenza del bambino era tale che la madre si chiese se fosse giusto tenerlo in vita.
Dopo l’operazione, che già aveva stremato questo bambino di cinque anni, ora gli sarebbe toccata la radioterapia tradizionale, una cura molto invasiva che avrebbe causato pesanti ed irreversibili effetti collaterali.
Dopo anni di approfondimento sulle “altre vie” mediche, ormai so che non si contano i casi in cui ci sono delle alternative ai protocolli ufficiali. Alternative meno invasive; alternative che offrono non solo più chance di vivere, ma anche più qualità di vita; alternative che non ti devastano il corpo e la mente. Queste altre vie a volte sono totalmente ignorate dalla medicina ufficiale; altre volte sono apertamente ostacolate. Capita però che alcuni medici mentalmente aperti e particolarmente umani, consiglino, “in via personale” alla persona malata o ai suoi famigliari di non seguire i protocolli ufficiali, specie quando è praticamente certo il loro effetto distruttivo e di provare percorrere altre vie.
Torniamo alla nostra storia.
Al padre del bambino era stato detto che l’unico trattamento disponibile secondo il NHS (il servizio sanitario britannico), la radioterapia classica appunto, avrebbe prodotto enormi danni al tessuto cerebrale sano e lo avrebbe lasciato disabile per il resto della sua vita
Un radiologo dell’ospedale, parlando col padre, aveva ammesso che le decisioni in merito alle terapie da seguire per trattamento del cancro erano state prese sulla base dei “tassi di sopravvivenza”, non tenendo in considerazione gli effetti potenzialmente devastanti di una cura e la qualità della vita che ne sarebbe conseguita. Con la radioterapia convenzionale, diceva il radiologo, il figlio avrebbe avuto problemi di udito, problemi di crescita e “esigenze particolari” per il resto della vita. Uno dei suoi commenti conclusivi fu:
“I bambini pagano un prezzo pesante per la sopravvivenza sotto la radioterapia normale”.
I genitori non volevano arrendersi, e cominciarono altro, mettendo in discussione l’insistenza con dei medici nel sottoporre loro figlio ad alti dosi di radioterapia. Nel frattempo avevano scoperto la terapia a fasci di protoni, che viene somministrata in una struttura di Praga, in Repubblica Ceca, il centro Proton. Questo trattamento sperimentale consiste nell’uso di raggi di protoni che dovrebbero colpire in modo specifico il tumore, cosa che rende meno probabile che il tessuto che lo circonda venga danneggiato.
I genitori proposero questa terapia ai medici del Southampton, i quali cercarono di liquidare la questione, sostenendo che tale terapia non era portatrice di alcun vantaggio rispetto alla radioterapia normale. Vedendo, però, che i coniugi King, non demordevano, cominciarono le minacce:
“Se continuate con queste domande, ci rivolgeremo al tribunale per chiedere che siano rimossi i vostri diritti parentali e che si venga dato il trattamento che vogliamo”.
Non c’era alcuna possibilità di ricevere comprensione e sostengo da quell’ospedale e per i genitori fu chiaro che l’unica via che restava loro era la fuga.
Immaginare i due genitori che, spingendo la carrozzella del figlio e cercando di non essere notati, fuggivano dall’ospedale. Può sembrare la scena di un film. Ma è proprio quello che è accaduto. La telecamera di sorveglianza dell’ospedale inglese, esaminata dalla polizia, mostra il papa di Ashya mentre spinge la sedia a rotelle fuori dall’edificio. Era il 28 agosto.
Due genitori costretti a fuggire di nascosto insieme al proprio figlio, per evitare che la sua vita futura fosse irrimediabilmente pregiudicata da una struttura sanitarie cieca e sorda ad ogni altra voce che non sia il feroce rispetto dei propri protocolli, protocolli benedetti da Big Pharma.
Comunque sia, i genitori riuscirono a fuggire. Quando i medici si accorsero che il bambino non era più nella loro struttura, sporsero denuncia alla polizia inglese, che emise un mandato di arresto europeo per la coppia. Da quel momento inizio la “caccia all’uomo”.
Durante quel breve periodo di latitanza, uno dei fratelli di Ashya aveva pubblicato un video su you tube dove il padre rivendicava il loro diritto di cercare di curare il figlio in modo da dargli qualche chance in più.
L’arresto dei genitori scattò due giorni dopo la fuga, quando essi erano arrivati in Spagna, in Costa del Sol a Malaga. L’accusa era “sequestro di persona”.
Ci sono momenti che sono emblematici in una vicenda, oltre che di una esistenza. Perché, anche se involontari, sono, nella modalità in cui si verificano, rivelatori. Uno di questi è stato il momento in cui la madre di Ashya è stata arrestata. L’arresto scatta proprio quando lei stava per salire su una ambulanza che doveva portare il figlio in ospedale. Durante quell’arresto, ad un ufficiale ha detto: “In che razza di mondo viviamo se si prende un bambino malato e lo si tiene lontano da sua madre”.
Una volta arrestati, i coniugi King vennero messi in una cella di una delle carceri più famose della Spagna, dove rimasero tre giorni. Mentre Ashya era da solo, ricoverato in una struttura di Malaga, a centinaia di km di distanza, a Malaga, sotto la tutela di due poliziotti. Anche i suoi fratelli e le sue sorelle avevano avuto il divieto di vederlo.
I genitori furono molto risoluti nel rifiutare l’estradizione. Volevano restare in carcere, in Spagna.
L’arresto di questi genitori, la crudeltà di tenerli lontani dal figlio, suscitò una unanime reazione e violente critiche verso l’operato della pulizia e dei pubblici ministeri inglesi.
La procura inglese, il Crown Prosecution Service, sotto la pressione di questa generale indignazione, è stata costretta a fare retromarcia e si è rivolta all’Alta Corte britannica per chiedere il ritiro del mandato di arresto europeo contro i coniugi King. Richiesta che venne prontamente accolta, consentendo alla polizia spagnola di liberare i due genitori.
C’è molta intensità nelle parole con le quali Ashya descrive il momento dell’incontro con il figlio:
“Mentre lo abbracciavo, potevo sentire il dolore dentro di lui.”
Gli ho detto: “Ashya io sono qui adesso. Non ho mai voluto lasciarti. Mi dispiace tanto per quello che è successo. Ma ora siamo qui. E staremo insieme per sempre. Non devi piangere più.”
Lo stesso primo ministro inglese David Cameron si era schierato da subito con i King e, una volta che la questione aveva avuto uno sciogliemento positivo, ha chiesto di incontrare il bambino che gli ricorda Ivan, il figlio disabile che ha perso nel 2009.
Ci sarà una denuncia da parte dei coniugi King contro i medici dell’ospedale di Southampton; per chiedere loro di rispondere per false accuse e diffamazioni.
Una volta scarcerati i genitori e venuta meno ogni accusa, Ashya è stato portato a Praga, e ha iniziato il trattamento, che l’NHS, per cercare di attutire la vergogna che ha attirato su di se col suo comportamento, ha accettato di pagare. Questo ha significato che le donazioni pubbliche raccolte per Ashya potranno essere usate per altri bambini.
Per la dottoressa che lo segue, Barbora Ondrova,“C’è una percentuale di sopravvivenza tra il 70 e l’80% per la condizione di Ashya. C’è ogni motivo per ritenere che possa fare un pieno recupero”.
I primi esiti del trattamento sembrano essere confortanti.
Ashya ha potuto avere la chance di sfuggire a un destino che sembrava già scritto grazie a due genitori straordinari, capaci di “rapire” il figlio dall’ospedale, e di fuggire in un altro Paese, finendo anche in carcere.. Con la follia che può avere solo chi si gioca il tutto per tutto, hanno innescato un meccanismo, dove la tracotanza dell’apparato medico ufficiale è uscita sconfitta. La gente ha parteggiato per questa famiglia e questo ha fatto la differenza.
L’esito di questa storia non deve farci dimenticare che la maggior parte degli altri Ashya, degli altri bambini con patologie di questo genere, non hanno nessuno che li faccia “fuggire”, e stanno subendo e subiranno protocolli devastanti base di chemio e radio. Protocolli che li condanneranno ad un’esistenza infelice e, spesso, anche ad una vita non lunga, nonostante ciò che dica il radiologo del Southampton Hospital con cui ha parlato di padre di Ashya. Protocolli sponsorizzati dalle grandi lobby del farmaco e dall’ establishment medico in incestuosi rapporti con esse. Nonostante esistano altre strade, più sane ed umane, ma meno “convenienti”.
Questa storia mostra anche la ferocia con cui un sistema difende se stesso. Un sistema dove puoi trovare medici indottrinati da un protocollo e capaci di minacciare gli angosciati genitori di un piccolo bambino se essi recalcitrano e non “obbediscono”. Un sistema capace di scatenare una “caccia all’uomo”, se cerchi di sfuggire alle sue tenaglie. E sebbene non in ogni caso simile ci sarebbe stata una reazione così persecutoria… quasi sempre ci sono le minacce e le pressioni… pressioni soprattutto psicologiche, volte a terrorizzarti al solo pensiero di poter cambiare strada.
Una cosa è certa.
Ci sono tanti altri Ashya che ci chiedono il coraggio di non lasciarli a stessi, il coraggio di difenderli.